La presentazione di questa sera alla Biblioteca Renzo Renzi, ci permette di parlare del volume curato da Giacomo Manzoli, Joel e Ethan Coen, e dedicato al cinema dei due celeberrimi fratelli registi. Per l’occasione l’autore ci ha gentilmente concesso la pubblicazione di un estratto della sua ricca introduzione, che noi usiamo a mo’ di teaser del volume (comunque consultabile presso la Biblioteca) e dell’incontro di oggi. Segue.
Donne, uomini, guardie e ladri.
Con Mister Hula Hoop si chiude una fase della carriera dei Coen, quella contraddistinta dalla collaborazione con Sam Raimi -con il quale il dialogo proseguirà, sia pure a distanza – e dalla ricerca di una precisa identità. Nonostante il notevole insuccesso commerciale (il film incassa intorno ai 3 milioni negli Usa), si consolida il rapporto con Silver, che fortunatamente per lui finanzia anche Fargo (1996). Un piccolo film, costato sette milioni di dollari, che si rivelerà il maggiore successo commerciale dei due autori, registrando incassi per oltre 25 milioni al box-office.
Fargo è a tutti gli effetti un ritorno a casa, nelle desolatissime pianure ghiacciate del Minnesota, abitate da bizzarre creature dai nomi vichinghi (Gunderson, Lundegaard, Grimsrud, Gustafson…), dove si svolge una storia criminale di raggiri, ricatti, omicidi, detection torpida che porta a una soluzione del tutto casuale. A fronteggiarsi, sull’asse della dialettica fra crimine e legge, ovvero ancora una volta caos e ordine, sono due famiglie (come osserva Bill Krohn[i]) antitetiche: la prima è patriarcale, non-riconciliata, legata all’accumulo di capitale e all’aggressività, la seconda, invece, matriarcale, armonica, basata sul principio della solidarietà e della mutua assistenza. Quest’ultima è però ugualmente straniante per diverse ragioni sulle quali si concentra qui il saggio di Ilaria De Pascalis dedicato alla maniera in cui ciascuno dei personaggi del film interpreta il proprio ruolo in termini di gender.
I due elementi che maggiormente hanno attratto pubblico e critica, decretando la riuscita del film, sono senz’altro la particolarissima ambientazione nordica – che in molti proveranno a sfruttare successivamente, dal Raimi di Soldi Sporchi (1998) al Nolan di Insomnia (2002) – e la natura del tutto innovativa del personaggio del detective, Marge Gunderson, alias Frances McDormand, che cattura assassini efferati al settimo mese di gravidanza, fra nausee e pancione ingombrante, riuscendo a essere contemporaneamente irresistibile e insopportabile. Dunque, se già al momento dell’uscita in sala nascono confronti serrati sulla negatività dei modelli maschili presenti nel film cui si contrappone un modello femminile, una Hollywood New Woman[ii] la cui positività è tutta da verificare, De Pascalis si dedica giustamente a districare la complessità e l’ambivalenza di questi modelli a confronto, a partire dalle reazioni che l’impostazione coeaniana della storia suscita nello spettatore.
Infatti, dentro a questo paesaggio sconfinato ma al contempo lattiginoso e incombente, la surrealtà dei dialoghi, l’inadeguatezza dei personaggi a sostenere la parte, l’ironia e i paradossi con cui siamo chiamati a confrontarci e la disperata durezza dei crimini abominevoli (ma stranamente mai iperrealistici) messi in scena, sono tutti elementi di un dramma grottesco (nell’accezione di Naremore)[iii] da cui scaturisce un piacere sadico. Lo stesso misto di repulsione e straniante attrazione che si prova nell’esperienza da voyeur entomologici di documentari sugli insetti (che non a caso sono il programma che Marge e Norm guardano sul loro televisore in bianco e nero, comodamente distesi a letto). Insomma, un film difficilissimo da prendere e analizzare, perché l’alienazione assoluta delle figure ritratte sullo schermo, nessuna esclusa, corrisponde alla vertiginosa alienazione di un pubblico che segue le imprese di queste figure insignificanti, personaggi-insetti, sullo scenario di un non-paesaggio interrotto da altrettanti non-luoghi a vocazione commerciale. Nel paese del “cervello incapace”, Brainerd, si consuma una storia “vera” (o comunque verosimile, anche visivamente realistica, contraddistinta sul piano stilistico dall’assenza di grandangoli, aperture oniriche, deformazioni, dall’alternarsi di lunghi piani-sequenza) giocata dalle solite coppie antitetiche. Il suocero dispotico e arrogante e il genero frustrato e inetto, il killer brutale e taciturno e quello nevrotico e ciarliero, la poliziotta d’acciaio e il disegnatore di francobolli del tutto sottomesso, sono i protagonisti di un dramma, insensato e al contempo ovvio, di inadeguatezze a confronto.
Viene istintivo, allora, contrapporre la dissoluzione della mascolinità tradizionale, travolta dall’intreccio di avidità e inadeguatezza, alla capacità di tenere assieme le cose del polo femminile e materno, e probabilmente è proprio questo il proposito da cui prende le mosse questo film “familiare”. A guardarci dentro, però, le soluzioni non sono così rassicuranti, se è vero che la compatibilità di Norm con questa “regina del formicaio” passa attraverso la sua completa svirilizzazione e se è vero, come suggerisce appunto De Pascalis, che “non solo Marge si pone rispetto a Norm nella stessa posizione di potere in cui Gear è posto rispetto a Carl (e Wade rispetto a Gerry), ma soprattutto i due personaggi vengono visivamente accostati”. In pratica, è come se tutte le creature viventi con cui il film ci mette a confronto, nel raggelamento emozionale e intellettuale che l’ambiente suggerisce, fossero del tutto incapaci di corrispondere ai ruoli di genere a, al contempo, di interpretarne (performare) nuovi e alternativi, riducendosi così ad altrettanti simulacri, destinati ad agire in modo irresponsabile e casuale, senza comprendere minimamente le ragioni degli altri e persino le proprie. “Sto solo facendo il mio lavoro”, afferma Marge ad un certo punto, per poi dichiarare tutta la propria incapacità a capire le ragioni – dunque di entrare in empatia – dei suoi antagonisti, disposti a uccidere e tradire per una misera manciata di “soldi sporchi”.
Ma Marge non è né il primo né l’ultimo degli eroi coeniani destinati a non capire alcunché dell’intrigo inedito che si trovano a dipanare. Con Fargo siamo entrati, infatti, in una fase di perfetta maturità creativa, e non è un caso se la maggior parte delle analisi concordate con gli autori dei saggi si concentrano sulle opere realizzate in questo periodo.
Perché dopo tutto il freddo subito durante le riprese di Fargo è quasi naturale che i due fratelli desiderino scendere al caldo del Sudovest e raccontare una storia californiana, una commedia (apparentemente) leggera e imperniata sulle avventure improbabili del più assurdo dei detective, Jeffrey Lebowski.
Di The Big Lebowsky (1998) si occupa qui Alice Autelitano, mettendo in rilievo la ricchezza di quello che ancora oggi è considerato da molti il vero capolavoro dei Coen. Se la piuma di Forrest Gump inaugurava una nuova stagione del cinema americano, in questo caso a rotolare nel deserto spinto dal vento è un tumbleweed, un cespuglio arruffato che ci conduce alle porte della città di Los Angeles, la città degli angeli, la metropoli di Blade Runner (1982) e le creature alate di Il cielo sopra Berlino (Wings of Desire, 1987), film capitali nell’affermazione della postmodernità cinematografica[iv]. Qui assistiamo alle imprese di The Dude, reduce della controcultura, fermamente impegnato in una sua personalissima battaglia contro il concetto stesso di lavoro, fumatore accanito di marjuana, bevitore di White Russian, giocatore di bowling, sognatore di musical alla Busby Berkeley e molte altre cose. Attorno a lui un mondo variopinto di saggi cow-boys, narratori appassionati quanto confusi, di reduci dal Vietnam col cervello fuso, una vasta gamma di perdenti di ogni tipo, miliardari con mogli ninfomani, rapitori nichilisti, pornostar, bocciofili pedofili, gestori di night-club e molto altro ancora.
Tutto parte, tanto per cambiare, da uno scambio di persona dovuto all’omonimia e si dispiega come una sorta di parodia allucinata del già sconcertante plot di Il grande sonno di Raymond Chandler, fatto rotolare, rigorosamente “a vuoto, di McGuffin in McGuffin, lungo una serie di generi classici (noir, gangster-movie, western, musical, commedia e molti altri) che consentono ai Coen di dispiegare il solito talento per le invenzioni mirabolanti e l’amore per il cinema e la letteratura, in un film che deve il suo fascino, molto semplicemente, alla quantità esorbitante di idee confluite al suo interno. Di tutto questo dà conto il saggio di Autelitano, ma è bene sottolineare un aspetto che si è manifestato nel tempo. The Big Lebowski, infatti, è rapidamente diventato un film di culto, grazie al fatto che riesce a condensare in un solo personaggio il più antieroico degli antieroi e il primo (e forse unico) autentico eroe della filmografia coeniana. E non parliamo solo dei fenomeni di fandom, come ad esempio i Lebowski Fest che si tengono ogni anno in diverse città degli Stati Uniti o l’infinità di siti e pagine di appassionati che popolano il web in generale e Facebook in particolare. Nel 2009, infatti, due rispettabilissimi docenti di American studies di Indiana University e della University of Louisville, Edward Comentale e Aaron Jaffe, hanno dato alle stampe un volume collettaneo (edito dalla prestigiosa Indiana University Press) intitolato The Year’s Work in Lebowski Studies[v], dove, attraverso il contributo di una ventina di colleghi, provano ad affermare due principi di merito e un principio di metodo. Il primo è che il film dei Coen è in effetti uno straordinario saggio sulla cultura contemporanea. Meglio, sul multiculturalismo contemporaneo, osservato non tanto sull’asse sincronico delle subculture etniche e anagrafiche, ma su quello diacronico delle diverse “epoche” cronologiche su cui si basano le culture alle quali si ispirano le diverse anime di il bizzarro melting pot di una metropoli totalmente centrifuga come Los Angeles. Frammenti di cultura psichedelica e della beat generation, nicchie di reduci di guerre di cui si è persa la memoria, terroristi nichilistici, artisti che si ispirano alle esperienze di fluxus, la rilettura mai nostalgica di un’iconografia del passato, communities che si ritrovano attorno a sport improbabili, tribù trasgressive e élite depravate, codici comportamentali di differenti universi criminali e così via, lungo una toponomastica fra le più esplorate dalla letteratura universale e una colonna sonora che spazia da Mozart a Musorgskij, da Bob Dylan ai Sons of Pioneers, da Henry Mancini ai Creedence Clearwater Revival, il tutto mischiato alla rinfusa con graffiante ironia dadaista. Ancora, nel merito, Lebowski è un outcast che guarda alle cose con distacco zen, un esistenzialista implicito, un uomo che sembra fluttuare nel vuoto (e infatti il suo sogno è quello di volare su un tappeto volante, come Sinbad), che osserva gli altri affannarsi per le proprie ossessioni e consumarsi nei conflitti, senza neanche provare a capire le ragioni del loro comportamento. Allo stesso tempo, con ludica goffaggine, è capace di condurre con implacabile tenacia le sue battaglie per vedersi riconosciuto un diritto demenziale ma fondamentale alla conservazione della dignità (ottenere il risarcimento di un tappeto su cui hanno orinato per spregio, a seguito dello scambio di persona).
Ecco allora che, proprio perché non vuole esserlo, Lebowski diventa un guru, il testimonial di una nuova non-setta i cui adepti si riconoscono a naso, ma soprattutto è l’emblema di un diverso modo di essere da cui consegue, nelle intenzioni dei collaboratori del libro di Comentale e Jaffe, una metodologia di approccio per i cultural studies. Seguendo l’esempio di Jeff Bridges, gli studiosi rielaborano il concetto jenkinsiano di “aca-fan” (academic-fan) e cercano di accostarsi ai fenomeni analizzati con uno spirito di partecipazione a bassa intensità, senza pretendere di inquadrarli in un frame “forte”, ovvero in griglie interpretative consolidate, ma lasciandosi “rotolare” verso di essi come la palla da bowling verso i birilli, evitando semplicemente di farsi “mangiare dall’orso” o di finire nella fossa ai lati della pista da bowling (“gutterballs”…).
Lebowski, dopotutto, è semplicemente uno che riesce a vivere in un mondo in crisi, proprio come i protagonisti del successivo Fratello dove sei? (O Brother, Where Art Thou?, 2000), un’Odissea per il nuovo millennio ambientata profeticamente durante la grande crisi del 1929, un f ilm-mondo che narra le peripezie bizzarre di tre uomini semplici in fuga dalla prigione, desiderosi solo di tornare a casa, ma curiosi di vedere se si avvererà la profezia di un vecchio cieco che ha dato loro un passaggio sui binari della ferrovia. Questa trama elementare, però, si dipana lungo un intreccio straordinario di rimandi e giochi intertestuali, di cui ha offerto una mirabile sintesi Erica Rowell:
Con la musica presente in quasi ogni scena, Fratello, dove sei?, favola dell’era della Depressione, è un nuovo tipo di musical – una rapsodia in blu o una musica di tempi andati, che fa un riff sui momenti più affascinanti e liberatorii della storia americana. Ma è anche un road-movie – un dramma sociale ispirato a Sturges che applica uno sguardo strabico alla variegata natura delle diverse personalità americane. È un mito che ripercorre il passato e dà nuova forma a figure storiche, trasformandole nelle tipiche caricature, isteriche e istericamente divertenti, dei Coen. È un’indagine originale all’interno delle rotte politiche e spirituali. È un risveglio – una rinascita culturale – che lega assieme motivi dei prison-movies, dell’avventura e della poesia epica. Infine, è un armonico viaggio e una ricerca satirica nelle profondità del passato dell’America[vi].
Se già Lebowski offriva il destro per una molteplicità di riferimenti eterogenei e vi era perfino chi lo aveva interpretato come una versione contemporanea della “quest” per eccellenza, quella del Graal[vii], è quasi impossibile dar conto della pluralità dei rimandi contenuti in questa ennesima fiaba per adulti (colti). Alta letteratura, classici, folk e pop culture, storica, letteraria, cinematografica e soprattutto musicale. Omero, come detto (sia pure sottoposto a contaminazioni pop, ad esempio con Cenerentola…) e la Bibbia, Mark Twain e Moby Dick, il già citato Sullivan’s travel (1941) di Sturges (da cui il titolo del film), ma anche un’infinità di altri film, Nick mano fredda (1967), Nascita di una nazione (1915), Crossroads (1986), Paper Moon (1973), il Mago di Oz (1939), perfino Prendi i soldi e scappa (1969) di Woody Allen. Ancora, molteplici rimandi a storia e miti del Mississippi, come quello del governatore W. Lee Pappy O’Daniel, famoso commentatore radiofonico e solito presentarsi in pubblico con una scopa per spazzare via dal Texas vizio e corruzione, oppure quello del famoso chitarrista Tommy Johnson, che avrebbe venduto l’anima al diavolo per poter suonare in maniera sovrumana (cui è ispirato anche Mississippi Adventure di Walter Hill), oppure, ancora, quella del rapinatore psicopatico Baby Face Nelson e molte altre. Ma è sul versante musicale che il film dispiega tutto il suo potenziale spettacolare e la sua sottigliezza filologica. Infatti, la colonna sonora curata da T-Bone Burnett, parte dal folk-blues degli Appalachi per offrire un compendio di etnomusicologia sulla ricchezza delle variazioni musicali che hanno fornito le basi a tutto il pop-rock contemporaneo (da qui, forse, anche l’omaggio a Warhol e ai Pink Floyd con la mucca sul tetto durante l’inondazione). Man of Constant Sorrow di Dick Burnett è la canzone che dà successo ai Soggy Bottom Boys nella finzione, ma anche un famosissimo brano d’epoca (reinterpretato da veri cantanti bluegrass, Dan Tyminski, Harley Allen, Pat Enright) che ebbe enorme successo, come del resto i Foggy Mountain Boys cui il gruppo dei tre stooges è ispirato, e poi ci sono spirituals (You’ve Got To Walk That Lonesome Valley), cori battisti (Down to the River To Pray) e una serie di canzoni della tradizione fluviale, a partire da Keep on the Sunny Side.
Dentro a tutto questo, la riflessione svolta nei modi dell’uomo comune sul rapporto tra fede e ragione, i continui riferimenti alla crisi materiale e morale che si affacciava negli USA già prima dell’11 settembre (l’imminenza dell’uragano artificialmente provocato), il sorriso beffardo con cui si ipotizzano risposte semplici (il filo degli affetti) a un tempo duro (così lo definisce l’Everett Ulysses McGill interpretato da George Clooney in uno dei suoi verbosi e supponenti monologhi), destinato a diventare ancora più duro per l’avvento della società dello spettacolo (la radio) e dei consumi (la brillantina) di massa.
[i] B. Krohn, Fargo, situation des frères Coen, «Cahiers du cinéma», n. 502, maggio 1996.
[ii] Per avere un’idea della ricchezza e della complessità del dibattito sul tema, si veda la mirabile sintesi offerta in V. Pravadelli, La grande Hollywood. Stili di vita e di regia nel cinema classico americano, Marsilio, Venezia, 2007 (in particolare pp. 17-48).
[iii] J. Naremore, More than Night. Film Noir in its Context, University of California Press, Berkeley, 1998.
[iv] Così secondo D. Harvey, The Condition of Postmodernity, Blackwell, Malden, 1990, tr. It. La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano, 1993.
[v] E. P. Comentale e A. Jaffe (a cura di), The Year’s Work in Lebowski Studies, Bloomington, Indiana University Press, 2009. Per avere un’idea del registro dei saggi contenuti nel volume, citiamo a titolo di esempio Dudespeak: Or How to Bowl like a Pornstar (Justus Nieland), A Once and Future Dude: The Big Lebowski as Medieval Grail-Quest (Andrew Rabin) e No Literal Connection: Mass Commodification, U.S. Militarism, and the Oil Industry in The Big Lebowski (David Martin-Jones).
[vi] “With music in almost every scene of the Depression-era fable O Brother, Where Art Thou? Is part nouveau musical – a rhapsody in blues and old-time music that riffs on America’s most subjugating and liberating moments. It’s also part road picture – a Sturges-inspired social drama that trains a cockeyed look at America’s variegated personae. It’s a myth that travels back roads to re-form historical figures into hysterical (and hysterically funny) Coen caricatures. It’s an inventive inquiry into political and spiritual roots. It’s an awakening – a cultural rebirth – stringing together motifs from prison movies, adventure quests, and epic poetry. Ultimately, it’s an harmonic voyage and a satirical investigation into America’s past”. E. Rowell, The Brothers Grim: The Films of Ethan and Joel Coen, Lanham, The Scarecrow Press, 2007, p. 244.
[vii] Andrew Rabin, cit.