Maria Callas è una voce. Una voce senza corpo. È quello che traspare in un passaggio dell’ultimo film di Pablo Larraín dedicato alla cantante lirica, in un ricordo, nelle parole pronunciate da Aristotele Onassis alla protagonista: se di Marilyn Monroe tutti sono interessati al corpo e possono soprassedere sulla voce non intonata, nessuno è interessato al corpo di Maria Callas perché per loro è solo una voce.

Eppure è proprio un corpo quello che si vede all’inizio del film, nella prima scena, un corpo deprivato della sua voce, morto. Maria, infatti, inizia come un thriller: un corpo, la polizia, un medico e due domestici. A seguire un elogio funebre che sposta l’attenzione dallo spazio privato dell’appartamento allo spazio pubblico del palcoscenico, dalle quinte a un proscenio fatto di immagini di archivio manipolate con il personaggio interpretato da Angelina Jolie immerso in una patina analogica che vive una dimensione tra il vero e il falso, tra la vita e la morte.

Il resto è un’indagine sugli ultimi giorni di Maria Callas, quelli dopo il ritiro dalle scene, quelli che precedono la morte nel suo appartamento parigino del 16 settembre 1977, quelli del deperimento fisico, del dimagrimento, della disfunzione ghiandolare, dell’insonnia e dell’abuso di medicinali. Un vagare vuoto di un corpo materializzato (quello di Angelina Jolie) e di una voce presentificata (quella della Callas).

Con Maria, Pablo Larraín prosegue un progetto cinematografico ormai evidente ma pieno di deviazioni e forse non così dichiarato quanto sembra. Prosegue la sua “missione biografica femminile” che trova in Jackie e Spencer le due massime espressioni: sono biopic svuotati e rielaborati a partire dai corpi (vedi anche Ema), intitolati con il meno storicizzato tra cognome e nome della protagonista (già dichiarazione d’intenti), incentrati su figure di potere come gabbie e maledizioni. Forse Maria è l’atto definitivo e istituzionalizzante di un autore che sembra aver trovato la sua misura e inevitabilmente trova a ripetersi e rifarsi. È un tassello, una ripetizione, ma anche la dichiarazione di un’opera che ha trovato una convergenza ormai calibratissima.

Ritornano i fantasmi, quelli di Spencer, che sono ricordi, oggetti e visioni. Lo stesso film è enunciato e scandito con i titoli scritti sul ciak di una troupe televisiva intenta a registrare un’intervista biografica, ma a sua volta frutto di una visione. Eppure vi è consapevolezza, la gabbia è il deperimento fisico, il resto è sotto il controllo di Maria. “Lasciate stare il palco scenico che ho nella mia testa”, dice più o meno così al maggiordomo e alla cuoca (Favino e Rohrwacher), la donna ha il controllo su tutto. È lei a voler decidere cosa è vero e cosa è falso, cos’è morto e cos’è vivo, cos’è realtà e cos’è visione, chi è Maria e chi è La Callas.

Solo una delle tante opposizioni tematiche di questo film sembra non essere sotto il controllo della protagonista: quella tra il copro e la voce. L’agiografia tipicamente sacrificata a favore di un lavoro sulle dinamiche interne trova in Maria la storia di una voce sopra a un corpo – i due grandi flashback, l’infanzia e la storia con Onassis, sono due capitoli della storia della voce più che della storia della donna, prima salvifica dopo negata – l’estensione vocale è la ricerca di un canto liberatorio personale, ma anche una misura umana.

Come per l’occhio biografico di Larraín: non importa l’opera o la carriera, importa la donna e il corpo, l’individuo e l’organismo. Il canto trova da un lato una misura liberatoria per sé (l’individuo) e dall’altro un testo che non prevede sottotitoli, un verso umano (l’organismo). La voce in Maria è il mezzo, l’unico strumento di interazione che trova in questo film una misura anche cinematografica. La voce è il messaggio.