Primo lungometraggio camerunense ad essere riconosciuto a livello internazionale, Muna Moto è un film che è documentario, dramma e avanguardia. Un’opera che parla dell’Africa, dell’uomo e del cinema.
Il film è introdotto da una tradizionale festa annuale (“festa del Ngondo”, in Douala), occasione per il regista di esplorare le tradizioni del paese attraverso uno stile documentaristico fatto di inquadrature movimentate e continui cambiamenti di fuoco. A danze rituali, musiche e balli viene contrapposta la storia d’amore di due giovani. La storia è ambigua e ha molto da raccontare, attraverso due primi piani e due reciproci sguardi, infatti, inizia il dramma e la loro tragedia.
Il regista lavora con la tradizione, non solo attraverso un occhio documentaristico, ma anche con occhio umano. Guarda alle usanze: tra matrimoni combinati, donne vergini comprate e figli come unico desiderio di ogni individuo. Attraverso i due giovani protagonisti viene messa in scena una lotta verso la libertà, contro il sistema della dote e le usanze maschiliste e patriarcali che riducono la donna ad aggettivi come “improduttiva” o “costosa”. Il racconto si rifà a stilemi tipici di tanta drammaturgia teatrale (il regista e gli attori, infatti, vengono tutti dal teatro). Romeo e Giulietta ne è il riferimento archetipico: un amore che, per sopravvivere, deve lottare contro la famiglia e la società intera. Una storia contro le tradizioni, ma anche radicata con affetto in un’Africa fatta di fiumi, foreste, spiagge e villaggi: uno schiaffo e una carezza alla società.
L'opera, datata 1975, risente evidentemente di influenze di un certo cinema moderno. Nonostante in Europa la sperimentazioni fossero ben consolidate da anni, Jean-Pierre Dikongué-Pipa ne trae la libertà espressiva e la personalità narrativa. Un cinema libero, ricco di dialoghi che spesso avvengono in voice-over tra i pensieri dei protagonisti, contrapposti a lunghi silenzi della natura che osserva. Accompagnato da una musica che alterna sonorità tradizionali e moderne, il regista gira con una totale libertà tra campi lunghi, soggettive e primi piani, indugiando così sui corpi scultorei e sui volti delicati ed eleganti, soli in mezzo ad una natura avvolgente. Girato interamente in bianco e nero, Muna Moto è un’alternanza tra luce ed ombre, una lotta eterna tra libertà ed oppressione.
L’opera, infine, è anche una riflessione sul potere: l’occhio politico non manca e rende il film una denuncia, seppur velata, sulla condizione dell’Africa nera, schiacciata dal passato coloniale; è un affresco sulla condizione umana, sul ruolo della famiglia e dei figli. “Il figlio dell’altro” è la traduzione letterale del titolo, sul quale il racconto costruisce l’ambiguità centrale che si espande al linguaggio visivo e alle immagini. Tutto è incerto, tranne il denaro e l’inquadratura fissa finale che la dice lunga sul pensiero e sulle speranze di Dikongué-Pipa.