C’è questo momento: Juan è appena uscito dall’ambulatorio del padre medico e fissa un quadro appeso sulla parete. Sembrerebbe una foto; poi, i dettagli delle pennellate rivelano la vera fattura dell’immagine. Tra gli scogli che sovrastano il mare, il tuffo carpiato di un uomo il cui volto è solo una chiazza rosa. Nel corpo senza identità che si libra verso il pericolo del fallimento, Juan visualizza il suo destino: il salto mortale di una generazione che ruba il passato della sua nazione per immaginare un futuro impossibile.

La rappresentano due giovani borghesi già feriti a morte, Juan e Benjamin, che saccheggiano il Museo di Antropologia di Città del Messico con l’idea di rivendere le opere e dare un senso alle proprie vite. È una storia vera, accaduta nella notte di Natale del 1985, e tuttavia nell’operazione di Alonso Ruizpalacios non c’è la pretesa del realismo. Se è vero, come sostiene il nume tutelare Carlos Castaneda, che “la realtà è solo un modo di vedere il mondo”, il regista sceglie un continuo cambio di registro per interpretare una storia costituita da un collage di frammenti.

Tutto, nel polisemico Museo, va letto tenendo presente la chiusura del film: “perché rovinare una bella storia con la verità?”. Ma anche parafrasando il mantra dell’avventurosa archeologia delle origini: saccheggiare (la realtà) per conservare (il suo valore). La maschera maya che, dopo la scomparsa, riappare sotto la teca del museo è il simbolo della teoria del film: è la sua replica, la cui falsità la si può rilevare forse solo usando un senso assurdo come il gusto (il trafficante che assaggia l’opera) e non quello più ovvio della vista. Cosa vedono, infatti, quei giovanissimi visitatori che mirano oggetti che non ci sono sotto le teche vuote, se non la difficoltà di riconoscersi in un passato comune?

Eppure, così sfacciatamente contrassegnato dalle impronte della metafora, ci sembra più sofisticato notare il quadro del tuffo. Non è un caso che il presagio accada lì nello studio, dove il padre di Juan (lo interpreta il cileno Alfredo Castro, talismano del cinema latinoamericano) esercita attraverso il lavoro quella maturità che il figlio non sa come declinare. L’incomunicabilità tra i due si articola tra l’onirico e il reale, negli sprazzi che nel modo più didascalico la spiegano attraverso un discorso fuori sincrono – marca, quest’ultima, presente nella scena del locale notturno, che costeggia ironicamente il noir – in cui è il figlio a soccombere, incapace di capire quanto la storia culturale sia il terreno sul quale edificare un’identità nazionale dunque personale.

Col suo statuto di star forever young, Gael García Bernal incarna, assieme a Leonardo Ortizgris, una generazione confusa e stordita che, pur rivelando un inaspettato talento criminale (la sequenza del furto è mirabile), manifesta al contempo uno scollamento totale dalla nazione e dalla sua storia. Non sa scorgere nelle opere rubate il valore inestimabile e fuori mercato del patrimonio né ravvisa le tracce per orientarsi nel disagio di non sentirsi parte del mondo.