In soli venticinque anni, Max Ophüls ha diretto alcuni dei film più affascinanti della sua epoca, attraverso due continenti, sei nazioni e i cambi di regime che condizionarono l’Europa di inizio secolo. Nella morsa è certamente un’opera meno celebrata del precedente Lettere da una sconosciuta, e ad essa inferiore sotto diversi punti di vista. Nondimeno, rimane un film pervaso dall’eleganza che contraddistingue lo stile dell’autore europeo, lontano dal sensazionalismo di altri coevi registi di melodrammi, come Negulesco e Sirk.

Sebbene il titolo – Caught in originale – possa lasciare presagire una buona dose di suspense, l’intreccio effettivo ruota attorno a un triangolo amoroso fra una giovane sposa ingenua, un ricco imprenditore possessivo e un pediatra di buon cuore. Adattata dal romanzo Wild Calendar, è una storia che sarebbe potuta scadere in una successione di stucchevoli soliloqui romantici, colmi di un’emotività che non trapassa i bordi dello schermo.

La passionalità di Nella morsa è invece schiacciata, annichilita dal gelido cinismo di personaggi succubi delle proprie manie o del ruolo impostogli. È soprattutto su questo ultimo elemento costrittivo che si basa la prima metà del film, nella presentazione di una giovane protagonista desiderosa di vivere la storia di Cenerentola – ironicamente accostata esplicitamente all’ideologia soggiacete al sogno americano – per poi rendersi conto della perdita che ne consegue.

La lucidità con cui la condizione femminile “ideale” viene raccontata e spogliata da ogni ipocrisia è forse il picco più alto dell’intero film, certamente ciò che più lo avvicina alla sensibilità contemporanea. Il gelo che pervade la relazione coniugale fra i due protagonisti è sapientemente accentuata da un attento studio delle proporzioni fra personaggi e ambiente che, per usare una celebre espressione di un’opera successiva del maestro, solo superficialmente è superficiale.

La composizione figurativa delle sequenze ambientate nella lussuosa magione del marito esalta la schiacciante sproporzione fra la minuta protagonista e le ampie stanze – un’eco della Rebecca di Hitchcock? - configurando spazi strabordanti mobilia quanto intrisi d’apatia. In diversi momenti poi, lunghi movimenti di macchina stretti attorno alla protagonista donano all’opera un ritmo coreografico e sinuoso, un’organicità fra personaggio e situazione che è rarissimo riscontrare anche nei migliori melodrammi.