L'assenza è determinante, strutturata e consapevole, tanto quanto la presenza. Almeno secondo quanto ci ha permesso di apprendere il filosofo Gilles Deleuze. Deleuze, nel suo saggio La logica del senso parla di un principio che lui chiama la casella vuota. In sintesi, non può esistere una struttura senza casella vuota, che fa funzionare tutto. Anche una casella vuota, un elemento che secondo lo strutturalismo è un posto senza occupante e occupante senza posto, che costituisce in definitiva una mancanza, conta moltissimo. Memo, il protagonista di Nessuno sa che io sono qui, è una casella vuota, in tutti i modi in cui essa possa agire.

La storia di Memo è quella di un bambino prodigio con una voce strepitosa. Quando un produttore convince il padre di Memo a prestare la voce del figlio per favorire il successo di Angel Casas, il suo sogno di diventare un cantante svanisce in un lampo. Memo vive questa decisione come un abuso, una violenza, che ha effetti sconvolgenti sulla sua vita. Memo ora è un eremita, vive in una campagna cilena lontano dalla società. Passa le serate accovacciato alla sua macchina da cucire, ricamando minuziosamente abiti colorati con paillettes. Solo nei boschi, indossa il suo costume stravagante e le sue cuffie, chiude gli occhi e si esibisce davanti a una folla immaginaria.

Nessuno sa che io sono qui è un film drammatico di  con protagonista Jorge Garcia, presentato al Tribeca Film Festival, dove Antillo ha ricevuto il premio come Miglior regista esordiente, prodotto da Pablo Larraín e da Netflix. Nessuno sa che io sono qui è un'affermazione solenne, tragica, la certezza di conoscere esattamente il proprio posto nel mondo, che non è una posizione fisica, ma più una collocazione impercettibile, invisibile in cui alcuni individui scelgono preminentemente di abitare. Memo è un uomo acclimatato a una vita solitaria, turbato anche dalle poche presenze che si alternano sulla sua isola, vive il suo esilio come se rivendicasse un debito con la società che lo ha usurpato, marginalizzato e annientato. Il suo talento, una volta così dirompente e visibile, ora è diventato intestimoniabile.

La sua esistenza negata è un ricamo visivo che alligna ogni fotogramma, il lavoro del regista è un continuo inseguire e incarnarsi in una drammaturgia del nascondersi. Il personaggio di Memo è stato costruito attorno alla propria fisicità, elemento di discordia, spazio di espressione e di contraddizione, ed è attraverso quel corpo che si consuma il suo dissenso. Quel corpo ostracizzato, ripudiato e schernito, imperfetto, dissonante e goffo, è qualcosa da cui non può scappare. Jorge Garcia sembra fare a pugni con la cinepresa, la sua presenza nelle scene è irrequieta, fuggitiva, infastidita dallo sguardo filmico. C'è una totale discordia tra mezzo fisico e mezzo espositivo. Gli unici attimi di riconciliazione con la storia avvengono mentre canta, di spalle, nei boschi, con indosso il suo costume di scena.

Nessuno sa che io sono qui, oltre che a confermarsi struttura con casella vuota, si distingue per una fotografia di Sergio Armstrong nitida, ampia, che si avvale dei colori naturali del paesaggio cileno, brunito, cinereo e vedovile. La fotografia è gelida, sceglie di non mettere a fuoco quasi mai il protagonista ma preferisce lasciarlo annegare nel suo ambiente, in quel mondo bucolico congelato nel tempo. I campi lunghi sono spettacolari, le ambientazioni splendide ma è tutto cristallizzato, immobile, il cielo minaccioso, la terra un luogo di abbandono. Per Memo sapere che nessuno sa che lui è qui significa vivere nascosto sì ma in piena vista, oscillante tra il suo essere occultato e il disvelamento, significa apparire in scena cantando e rinnegarsi in silenzio, farsi cinema e voltargli le spalle, una casella vuota che vive della consapevolezza del promontorio che lo precede e dell'abisso che sta abitando.