In occasione del Nordic Film Fest, è stato proiettato il primo film diretto da Benedikt Erlingsson: Of Horses and Men. Con uno stile evocativo che procede per interconnessioni alla maniera di Lee Masters, Erlingsson trasporta davanti alla macchina da presa le vicende, fortemente intrecciate, degli abitanti di un piccolo paesino islandese il cui passatempo principale pare essere il monitoraggio costante, con tanto di binocolo, di ciò che fanno i propri vicini.
Questo voyerismo estremo si rivela essere la chiave di lettura di tutto il film, poiché il filo conduttore delle varie vicende è rappresentato proprio da quella parte del corpo che usiamo per osservare: gli occhi. Sono gli occhi puri dei cavalli, che, ripresi in dettaglio, scandiscono gli episodi del film, osservano e accompagnano le vite dei vari personaggi. Gli occhi dei cavalli rappresentano lo specchio dell’anima di quelle terre, in particolar modo diventano la superficie su cui gli uomini che vi abitano riflettono la propria vita, i propri turbamenti e le proprie passioni. I personaggi messi in scena si scoprono legati all’esistenza di quegli animali da un vincolo inscindibile in cui la vita e la morte si mescolano.
Il regista mette in luce come la vita dei cavalli e quella degli uomini siano legate tra loro e di come il cavallo rappresenti, per chi abita in quelle terre inospitali, una speranza di salvezza. É questo il caso della storia del ragazzo disperso nelle nevi, sopravvissuto fino all’arrivo dei soccorsi trovando rifugio nel ventre del proprio cavallo oppure quella del coltivatore che, perdendo la vista per colpa di un filo spinato, viene ricondotto sul sentiero di casa dal suo fidato destriero.
Erlingsson sembra quasi voler fare un tributo a questo splendido animale riprendendo con primissimi piani e lente carrellate il suo corpo ed è proprio la corporalità dell’animale a rappresentare per l’uomo il tramite diretto con la natura. Accarezzare il manto, sussurrare alle orecchie e specchiarsi negli occhi del cavallo costituiscono gesti che connettono l’uomo alla natura e imbrigliarlo simboleggia l’illusione che l’uomo ha di poter domare e controllare la natura stessa. A fare da sfondo, la bellezza del paesaggio islandese, vergine e selvaggio, il quale alterna montagne a corsi d’acqua e dove il terreno scuro, di derivazione vulcanica, si sovrappone alle radure verdi nelle quali corrono liberi i cavalli.
Il linguaggio cinematografico di Erlingsson è composto dall’utilizzo, oltre ai già citati dettagli e primissimi piani, anche da campi lunghi e dalla riduzione dei dialoghi all’essenziale. Film a tratti crudele, come lo è la natura che circonda nella sua silenziosa maestosità i personaggi, rappresenta uno spaccato di vita di un popolo lontano che anche noi spettatori ci troviamo ad osservare attraverso la lente della macchina da presa.
Valentina Ceccarani