One Second, il nuovo film Zhang Yimou, è costruito interamente intorno a una pellicola. Una “pizza” vera è propria, chiusa in una scatola di latta e caricata su una motocicletta che con il suo prezioso carico fa il giro dei villaggi di una zona desertica della Cina di Mao. È il sesto rullo di Heroic Sons and Daughters che l’orfana Liu ruba per ricostruire la lampada del fratellino, angariato dai bulli. La insegue il misterioso Zang, che vuole assolutamente che la bobina arrivi a destinazione.
Nel cinegiornale che precede il film, infatti, compare per un attimo sua figlia, presentata dalla propaganda come studentessa e lavoratrice modello. Rivederla, seppure proiettata sullo schermo, è il solo motivo per cui è evaso dai lavori forzati. La resa dei conti sarà al cospetto di Mr. Film, il più bravo e rispettato proiezionista della regione.
Prima di arrivare alla Festa del Cinema di Roma il film era atteso a Berlino 2019 ma fu poi ritirato. Dietro i formalmente annunciati problemi di postproduzione si nascondono probabili disavventure (e sforbiciate) censorie, e non è difficile capire il perché. Dopo la stagione dei film “wuxia”, il regista di Lanterne rosse e La foresta dei pugnali volanti si muove nuovamente verso un cinema alla ricerca di un dialogo con la storia, personale e condivisa. Siamo negli anni più difficili della Rivoluzione culturale, e anche se la brutalità dei campi di rieducazione è solo accennata e la violenza “di stato” presente ma quasi senza nome, il film è più disilluso e meno consolatorio di quanto non sembri in apparenza.
One Second è innanzitutto un grande atto d’amore per il cinema. Un amore concreto, quasi fisico: la pellicola, trascinata per errore in una strada polverosa, viene curata, pulita, accarezzata con una delicatezza e un’attenzione che difficilmente i personaggi utilizzano tra di loro. Perché il cinema, al contrario delle azioni di molti esseri umani, è il solo elemento capace di dare sollievo, di distrarre e di rianimare le vite dei protagonisti. Dopo un inizio vagabondo con più di qualche eco chapliniano e zavattiniano, la vicenda si sposta in una sala cinematografica strapiena, stipata davanti, dietro e sotto lo schermo di un esercito di spettatori in adorazione.
Il film proiettato è visto e rivisto, conosciuto a memoria, ma aspettato dagli abitanti del villaggio come un evento unico. Non c’è qui l’epica, e la retorica, di Nuovo cinema Paradiso, ma la volontà di riconoscere al cinema, inteso come grande rituale collettivo, il suo valore ludico e liberatorio. Una dimensione in cui anche il più smaccato prodotto di regime, anche i cinegiornali retorici e incensanti, sono una meravigliosa alternativa alla realtà.
Il cinema riesce inoltre a controllare il tempo e lo spazio. Può avvicinare l’immagine di una persona lontana, può eternate un momento, ripetendolo a loop può trasformare un secondo in un’ora. Il protagonista si aggrappa, fino all’ultimo, alla possibilità che rivedere la figlia in quei pochi fotogrammi possa in qualche modo restituirgliela, la possa preservare nella sua memoria e nella sua vita. È solo un’illusione, ovviamente, ma potremmo sopravvivere senza?