Nel 1937, 17 anni prima della più celebre versione diretta da George Cukor e interpretata da Judy Garland (ma anche 5 anni dopo la prima versione diretta sempre da Cukor, col titolo A che prezzo Hollywood?), William Wellman realizza A Star is Born. Meno glamour, patinata e più rustica della, comunque grande, sorella maggiore diretta da Cukor, la versione data da Wellman vive innanzitutto delle grandi prove di Janet Gaynor nel ruolo della protagonista e dell’ottimo Frederich March, bravissimo nel passare dalla sbruffoneria comica al tragico, nel ruolo dell’attore alcolizzato che spalanca le porte del successo alla giovane sognatrice venuta dai monti, si innamora, la sposa, finendo travolto dai fantasmi del passato e dal successo della moglie. In un certo senso è lui il vero protagonista, colui dal quale in un modo o nell’altro dipendono tutti gli snodi narrativi più importanti, le evoluzioni dei personaggi e i cambi di tono e d’atmosfera, come fosse una sorta di Deus ex machina. E a lui è anche collegato il più bel “momento di regia” dell’opera, con cui Wellman dimostra di non essere solo un ottimo artigiano dalla “mano invisibile” ma anche un regista capace di finezze espressive: è infatti un lento carrello all’indietro a decretare l’impossibilità di riscatto dell’ex divo, completato da uno zoom in avanti che sancisce il suo definitivo e irrimediabile crollo. In qualche modo è all’evoluzione del personaggio che si collega anche il passaggio dalla commedia brillante della prima parte al melodramma sempre più esplicito della seconda, tenendo comunque presente che i due toni, anche se in ruolo secondario e più sommerso, sono entrambi costanti in tutta la durata dell’opera. A Star is Born è anche il primo film a colori del regista: colori accesi e brillanti, che sottolineano l’irrealtà allo stesso tempo magica e tragica della Mecca dei sogni, colpita non tanto dalla satira, componente in fin dei conti secondaria e un po’ con le polveri bagnate, quanto dai drammi più intimi dei protagonisti. Quando una stella nasce, un’altra muore.
EDOARDO PERETTI