“Chissà dove so’ andate a finire le statuette de cera” si chiede la Principessa Domitilla, ultima discendente di una nobile famiglia ormai decaduta. Forse nello stesso posto in cui spariscono, distrutti dall’aria esterna, gli affreschi della città sommersa. Volevamo risolvere il problema del traffico, spiega l’ingegnere che si occupa degli infiniti lavori per la metropolitana, ci siamo dovuti reinventare archeologi. Archeologia, per l’appunto: dove sono finiti i guitti del Teatrino della Barafonda? L’elettricista ballerino che vorrebbe essere Fred Astaire, il pubblico volgare che boicotta l’imitatore, i buffi surrogati dei trii canterini. E le donne dei bordelli – ma c’è casino e casino: il casino di lusso con gli ascensori e quello degli straccioni con le piastrelle sporche – sono le stesse che oggi (cioè nel 1972) troviamo lungo il Grande Raccordo Anulare?
Roma è la ricerca del tempo perduto? “E basta co’ ‘sto Proust!” esclama una signora in platea all’ennesima tirata intellettuale del suo vicino. Per Federico Fellini il passato non è una terra straniera. L’emigrante riminese ricorda tutto e perciò può reinventare la sua stessa vita. Perché, d’accordo, l’esperienza personale, ma Roma è un’esperienza collettiva. E all’autofiction – che, chiaro, Fellini mica chiamava così – serve il documentario – che, chiaro, Fellini certo intendeva a modo suo – per completare una visione che è al contempo autoritratto e panoramica, fumetto e miniatura, memorialistica e aneddotica, flusso di coscienza e sentire comune. Onore a Ruggero Mastroianni, che al montaggio dà una forma al disordine del genio.
Dapprima sembra che a Fellini interessi anzitutto capire cosa sia Roma: Roma è una scritta nera che inonda il quadro rosso, dunque una pietra, quindi la storia, le geografia, il teatro. Una stazione che accoglie il forestiero con i manifesti dei film, quasi a dichiarare da subito ciò che Gore Vidal afferma verso il finale: è la città delle illusioni e non fa niente per nasconderlo. Roma è una casa che non ha confini (quanti piani, quante scale, quante stanze nella prima dimora che accoglie l’avatar di Fellini?). È gente che mangia in piazza, attovagliata senza nemmeno conoscersi, e chiede mezze porzioni per stare leggera ma poi si lamenta della razione scarsa, mentre si sporca la bocca di sugo. È la pajata che la mangi solo là ma anche le lumache che però “non in trattoria, solo quelle che cucino io dopo che hanno spurgato quattro giorni”.
Roma è dentro la luce del maestro Giuseppe Rotunno. È la Capitale, la centrale del potere da occupare, profanare, liberare: gli hippie prendono il sole tra gli archi di Santa Maria Maggiore, suonano sulle scalinate di Piazza di Spagna, vengono picchiati dalla polizia a Trastevere mentre i borghesi approvano. Roma è il traffico infernale che assedia il Colosseo, i cadaveri sull’autostrada mentre divampano le fiamme. Il fascismo come baracconata, sbruffoneria, perversione. La burocrazia, i lavori della metro già all’epoca da cent’anni operativi. E Roma è il papa che c’è ma non c’è (“tanto non ce bombardano perché c’è sta er papa!” mentre le prime case crollano: e cos’è quel gioco d’ombre nella galleria), la Chiesa, l’aristocrazia nera, le sartorie (un nome, un mondo: Danilo Donati).
Essendo una città a più strati, che nel corso dei secoli ha coperto se stessa infinite volte, Roma potrebbe essere mille altre cose. Ma, ecco, forse a Fellini non interessa capire cosa sia Roma quanto piuttosto chi sia Roma. L’ombra dei cani che potrebbero essere le lupe sui muri delle strade? L’enorme padrona di casa a letto con figlio ebete che s’accolla a lei? L’epifania notturna di quella dea pagana e selvaggia? La statua nella città sommersa che dà le spalle ai ricercatori? Una qualunque prostituta? La principessa? Il cardinale? Oppure Anna Magnani che, nella sua ultima apparizione sullo schermo, ridimensiona il simbolismo di Fellini che la vorrebbe emblema della città: ma in quel “nun me fido!” c’è tutto lo spirito di un popolo fatto di personaggi che credono ognuno d’essere simbolo della città. “Che fine hanno fatto i romani?” chiede a Fellini l’amico avvocato. Roma è una città di fantasmi, corpi immobili sospesi nel nulla, mentre il mondo va avanti sempre uguale a se stesso. Essenzialmente una necropoli, la grande bellezza della fine perenne.