In occasione dell’uscita in prima visione della versione restaurata di Il mago di Oz, Cinefilia Ritrovata comincia una serie di approfondimenti. Grazie anche ai materiali presenti sul mini-sito dedicato al film, oggi partiamo con un estratto molto affascinante.

Nel 1992, all’apice della propria fama (la fatwa scagliata contro di lui è di tre anni prima), Salman Rushdie pubblica per il British Film Institute un piccolo libro dedicato al film Il mago di Oz, che lo ha ossessionato fin dall’infanzia. Lo analizza basandosi su studi precedenti, ma soprattutto parla di un rapporto viscerale, che nasce da una prima visione infantile (in cui lui, figlio di privilegiati, rimane sconcertato dalla miseria della casa di Dorothy, sogna Mastichini verdi e non nasconde la propria antipatia per il cane Toto) e continua nei decenni, dalla prima prova narrativa da bambino intitolata Over the Rainbow ai riferimenti nascosti in libri come Harun e il mare delle storie. Finché, adulto e famoso, lo scrittore decide di cimentarsi “con qualcosa di insolito, qualcosa che dovrebbe distruggere il mio amore per il film, senza che in realtà ciò si verifichi. Sto guardando una videocassetta e osservo il film con un blocco per appunti in grembo, una penna in una mano e il telecomando nell’altra, sottoponendo Il mago di Oz a indegnità quali la moviola, l’avanzamento veloce e il fermo immagine. Sto cercando di imparare il segreto di quel gioco di prestigio.”
Le osservazioni di Rushdie sono spesso illuminanti, quando nota l’“assoluta mancanza di un eroe maschile” o paragona il Leone, lo Spaventapasseri e l’Uomo di Latta (ma anche il Mago) agli Hollow Men, gli Uomini Vuoti, di una celebre poesia di T.S. Eliot. Nota come nel film le linee dritte abbiamo sempre un significato positivo e rassicurante, mentre le linee curve e spiraliformi segnalino il male e la minaccia. Apprezza lo spirito laico e anarchico del film, che insegue e rivendica fin nelle ultime inquadrature.
Ma ecco alcuni frammenti memorabili della lettura di Rushdie.


Un film senza autore

“Chi è dunque l’autore del Mago di Oz? […] La verità è che questo grande film, in cui i litigi, i licenziamenti e i pasticci di tutti coloro che vi furono coinvolti produssero alla fine qualcosa che ha tutto l’aspetto della pura, spontanea e in qualche modo inevitabile felicità di risultati, è anche dannatamente vicino a quel passaparola della moderna teoria della critica che è il testo senza autore”.

Over the Rainbow
“Chiunque si sia bevuto la storiella raccontataci dallo sceneggiatore sulla superiorità della ‘casa’ rispetto al ‘lontano da casa’, e creda di conseguenza che la morale del Mago di Oz sia leziosa come un centrino con su ricamato ‘casa dolce casa’, farebbe bene ad ascoltare il tono struggente di desiderio nella voce di Judy Garland, mentre rivolge il suo faccino al cielo. Quello che lei esprime qui, ciò che rappresenta con la purezza dell’archetipo, è infatti il sogno umano del partire, un sogno che ha una forza per lo meno equivalente alla sua controparte, ossia al sogno delle radici. Al fondo del Mago di Oz c’è una grande tensione fra questi due sogni; ma nel momento in cui la musica ha inizio e quella voce limpida e potente si innalza nel desiderio angoscioso espresso dal canto, qualcuno potrebbe avere dubbi su quale dei messaggi sia più forte? […] Over the Rainbow è, o dovrebbe essere, l’inno di tutti gli emigranti del mondo, di tutti quelli che vanno alla ricerca del luogo in cui ‘i sogni che osi sognare si avverano’. È una celebrazione della fuga, un grande peana dell’Io Sradicato, un inno – anzi l’inno – all’Altrove”.

Judy Garland
“Da un lato le tocca essere la tabula rasa del film, la lavagna su cui l’azione della storia gradualmente si traccia da sé. […] E tuttavia allo stesso tempo deve portare tutto il carico emotivo, l’intera forza ciclonica del film. Il fatto che si dimostri all’altezza di tutto ciò lo si deve non solo alla matura profondità della sua voce, ma anche a quella curiosa rigidità, a quella goffaggine che ci attira proprio perché è brutta per metà, jolie-laide a paragone della bellezza affettata che una Shirley Temple avrebbe di certo conferito al ruolo. La recitazione della Garland, un po’ raffazzonata e qua e là di un antierotismo un po’ ottuso, è precisamente ciò che fa funzionare il film. Ci si può solo immaginare la disastrosa civetteria che la giovane Shirley avrebbe finito con l’usare, ed essere grati, ancora una volta, al destino che fece optare la MGM per Judy”.

Il Kansas e il tornado
“Il Kansas descritto da L. Frank Baum è un luogo deprimente, in cui tutto, fin dove arriva lo sguardo, è grigio. […] È al di fuori di questo grigiore (che tutto avvolge e assomma di quello squallido mondo) che arriva la calamità. Il ciclone altro non è che tutto quel grigio accumulato, turbinante e sguinzagliato, per così dire, contro se stesso. E a questo principio il film riesce a essere incredibilmente fedele, riprendendo le scene del Kansas in quello che chiamiamo bianco e nero ma che in realtà è una molteplicità di toni di grigio […].
C’è però un altro modo di interpretare il tornado. Dorothy infatti ha un cognome: Gale (‘tempesta’ in inglese). E per molti aspetti Dorothy è effettivamente una tempesta che soffia da quel piccolo angolo del nulla chiedendo giustizia per il suo cagnolino mentre gli adulti cedono mestamente il passo alla potente Miss Gulch. […] Dorothy è la forza vitale del Kansas, proprio come Miss Gulch ne è la pulsione di morte; e forse sono i sentimenti di Dorothy, o il ciclone di sentimenti scatenato tra Dorothy e Miss Gulch, che si inverano nel grande serpente di nubi scure che si snoda attraverso la prateria, divorando il mondo”.

La foto delle controfigure
“Mi ritrovai a un certo punto a contemplare una vecchia foto a colori dello Spaventapasseri, dell’Uomo di Latta e di Dorothy, in posa in un’ambientazione boschiva, circondati da foglie autunnali, e mi resi conto all’improvviso che non stavo affatto osservando le star del film, ma semplicemente le loro controfigure. […] Le controfigure si mantengono invisibili anche quando sono al centro dello sguardo. E restano fuori scena anche quando di fatto sono sullo schermo.
A ogni modo, non è questa la ragione alla base della mia insolita fascinazione per quella foto, che si spiega piuttosto col fatto che, nel caso di un film prediletto, tutti noi siamo doppi delle star. È la nostra immaginazione che ci mette nei panni del Leone, pone le scarpette luccicanti ai nostri piedi, e ci spedisce sghignazzanti attraverso i cieli, a cavallo di una scopa. Guardare questa foto è come guardare in uno specchio. Il mondo del Mago di Oz ha preso possesso di noi. Siamo noi le controfigure, adesso.
Un paio di scarpette rosse, rinvenuto in un bidone delle cantine della MGM, venne venduto all’asta, nel maggio del 1970, per l’incredibile somma di 15.000 dollari. L’acquirente era e resta tuttora anonimo. Chi era costui, per desiderare a tal punto di possedere, forse anche di indossare, le scarpette magiche di Dorothy? Eri tu, caro lettore? Ero io?”.

Finale
“Tornata a casa nel bianco e nero, con zia Em e zio Henry e la vil gente meccanica riunita intorno al suo letto, Dorothy dà così inizio alla sua seconda rivolta, ribellandosi non solo all’indisponente condiscendenza dei suoi familiari, ma anche a quella degli sceneggiatori e al moraleggiare sentimentale dell’intero studio system di Hollywood. ‘Non è stato un sogno, io ero davvero in un posto reale’ strilla penosamente. ‘Era tutto vero, e io ero in un posto reale. Insomma, nessuno di voi mi crede?’
Molte, moltissime persone le hanno creduto. I lettori di Frank Baum le hanno creduto, e l’interesse da loro mostrato nei confronti di Oz ha spinto il suo autore a scrivere altri tredici libri su questo mondo fantastico, evidentemente di qualità inferiore. […]
È così che alla fine Oz diventa la casa; il mondo immaginato diventa il mondo reale, come avviene per tutti noi, poiché la verità è che una volta che abbiamo abbandonato l’infanzia e abbiamo iniziato a dare un fisionomia alla nostra vita, armati solo di quello che siamo e abbiamo, comprendiamo anche che il vero segreto delle scarpette rosse non è che ‘nessun posto è bello come casa mia’, ma piuttosto che la nostra casa non esiste più; a eccezione, ovviamente, della casa che ci creiamo noi, o di quella costruita apposta per noi a Oz: che è ovunque, in ogni luogo, fuorché dove abbiamo cominciato”.

Le citazioni sono tratte da Salman Rushdie, Il mago di Oz, Mondadori, Milano 2000