Piccolo grande successo di queste settimane, grande alternativa a Belle di La bella e la bestia (cinematografica, culturale, anagrafica, tipologica), Elle continua la sua spiazzante marcia, e noi ce ne occupiamo ancora, convinti che del film di Verhoeven si dovrà parlare ancora a lungo.

Elle è Michèle (Isabelle Huppert), una donna tutta d’un pezzo, tanto cinica quanto indipendente, ironicamente crudele, ma irresistibilmente affascinante, a capo di una casa di produzione di videogames (settore prevalentemente maschile), pronta a sfoderare il suo pugno di ferro in qualsiasi occasione, a lavoro, in famiglia, con la vecchia “grottesca” madre, con il figlio “tontolone”, con l’ex marito “scrittore fallito”, o con i suoi numerosi amanti. Un evento insolito darà uno scossone a questa sua esistenza, un’aggressione, tentando di ribaltare il suo ruolo prepotentemente attivo in quello di preda. Ma Elle è la protagonista di un film nuovo, e ci stupirà, proprio per questo: rifiutando di vestire i panni di vittima o indossare lettere scarlatte foriere di vergogna.

Il risultato è un film-paradosso capace di contraddire continuamente l’opinione comune (il senso del pudore, del peccato, della morale o anche solo della logica) con un climax ascendente di piccoli colpi di scena, ossia, micro assurdità, che tutte insieme potrebbero assurgere ad un epico nonsense, ma lette singolarmente riescono a declamare la forza e l’unicità di questo personaggio gigantesco, Elle, dipinto a tinte forti da una mastodontica Isabelle Huppert.

Elle è un film sicuramente rivoluzionario, perchè costringe lo spettatore a riconsiderare tantissimi pre-giudizi su alcune delle tematiche più hot della nostra società, sessualità/bisessualità, timore religioso, perversioni, sadomasochismi e violenze di vario genere (non ultima quella insita nei videogiochi moderni). Ci costringe a rivalutare la definizione di mostro, l’equazione “uomo:donna=carnefice:vittima”, è un film in cui tutti i piani del discorso vengono continuamente ribaltati, saltando da un registro di genere all’altro dal thriller alla black comedy, dal trash alla tragedia, passando per il grottesco. Grazie alla mano sapiente di Paul Verhoeven, la direzione della pellicola è chiara, vuole mantenersi sul filo dell’ambiguità, così come la sua protagonista, o il rapporto “malsano” che instaura con il suo aggressore, mostrandoci scabrosamente l’altra faccia della medaglia della violenza: il piacere.

Di violenza e sangue è intriso l’intero film, come se ne diventasse un’ inconfondibile cifra stilistica: sin dall’apertura, vista con gli occhi del gatto, sulla scena del “crimine” (stupro con scasso), poi ripetuto più e più volte prima come flashback, poi come flashforward nell’anticipazione di un finale, che, ora vissuto come fantasia, in effetti si realizzerà, anche se in circostanze differenti. Il colore del sangue impressiona la pellicola, dal triangolo rosso tra la schiuma da bagno che lava l’onta dello stupro, a quello che schizza dalla mano dell’aggressore (un ignoto “Diabolik” in calzamaglia nera e passamontagna), trafitta da Michèle con un paio di forbici da scrivania, tanto vicine a quelle del Delitto perfetto di Hitchcock, conficcate da Grace Kelly nella schiena di Swann dopo una violenta colluttazione.

Solo che nel film di Hitch la donna era vittima sacrificale e impotente di un diabolico inganno maschile, mentre in Elle la donna è pienamente capace di difendersi da sola, non ha bisogno di chiamare investigatori o polizia in suo soccorso, perchè sa come affrontare la violenza e superare ogni paura, va a dormire con un martello, compra uno spray al peperoncino, l’autodifesa è il suo vessillo. E non lo fa perchè sia eroica, ma perchè probabilmente non vuol mettere subito fine alla violenza, con la violenza le va di giocare, come il gatto con il canarino, affila le unghie e dà al carnefice quello che vuole, che siano schiaffi o mutandine strappate, sta al gioco e vince in premio uno degli orgasmi più forti a memoria di cinema non erotico: per terra, in secondo piano, Michèle rantola per un paio di minuti alla fine di un atto sessuale consumato con inaudita violenza, ma capace di donarle altrettanto intenso e ineguagliabile piacere. La padrona è Michèle, padrona di sè, del suo piacere, dei suoi menage, del suo stagista (che umilia facendogli abbassare le mutande per non perdere il lavoro, come di solito sono le stagiste donne a dover fare), dei suoi rapporti familiari e della sua vergogna.

A un certo punto dichiarerà: “Se non si prova abbastanza vergogna, non ci si ferma dal fare qualsiasi cosa. Infatti la vergogna è un freno che Michèle non accetta, esposta alla gogna mediatica sin da bambina per causa del padre ergastolano serial killer, ha smesso di vergognarsi o di portare croci non sue, e ha deciso di prendersi ciò che vuole, sol perchè ne ha voglia, senza porsi grossi problemi di morale (come nel caso della relazione con il marito della sua migliore amica e amante). Con uno sguardo gelido e i capelli sempre in ordine Isabelle Huppert supera se stessa in questa prova d’attrice, della quale non sapremmo immaginare nessuna alternativa.

Nonostante siano palesi le reminiscenze di Erika Kohut, la protagonista de La Pianista di Haneke, notiamo una differenza sostanziale nella caratterizzazione della Huppert, lì vestiva i panni di donna frustrata e repressa, tormentata da perversioni sadomasochistiche e voyeuristiche, che implodeva riversando la forte carica sessuale sotto forma di violenza su di sé, qui Michèle è una vera “mistress” padrona di se stessa e degli altri al punto da poter ribaltare il senso della violenza subita invertendola in un’azione da lei dominata e di cui scriverà lei il finale. In una corale raffigurazione del genere maschile come di inetti posseduti dalle voglie dettate dai loro membri, è Michèle l’unica ad uscire vincente perchè, se non altro, ha smesso di mentire, rifiutando qualunque inutile e falso moralismo o di cercare la protezione del maschio. Non c’è uomo padre, marito, figlio o amante che tenga. Elle è da sola a decidere della sua vita, e lo fa con impassibile fermezza.

Francesca Divella