Proseguono gli incontri bolognesi col miglior cinema della stagione. Gianfranco Rosi, vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino, non poteva che farne parte, accompagnando a Bologna il suo film. Il regista ha spiegato: “Il film è un po’ uno stato d’animo: sono delle sensazioni, delle emozioni costanti che ci riportano da un’altra parte, a qualcosa che anche noi lentamente scopriamo: l’occhio pigro, l’ansia, l’esercito, la guerra, il taglio del cactus che poi viene rappezzato con lo scotch. Sono tutti elementi che ci riportano alla nostra impossibilità di agire, di leggere, di guardare, di avere lucidità nei confronti di quella che è una delle più grosse tragedie a imporsi di fronte ai nostri occhi. E questi sono incontri sempre un po’ fatali. Situazioni e personaggi che nascono per caso e poi, nell’arco del tempo delle riprese, diventano una necessità. Il tempo del film è il tempo dei personaggi, la storia dei personaggi. A Berlino qualcuno mi ha detto: le parole chiave di questo film sono tre: l’amore, la passione e la compassione”.
Ed Emiliano Morreale ha scritto: “Per il suo nuovo documentario dopo il Leone d’oro vinto con SacroGRA, Gianfranco Rosi ha seguito il proprio consueto metodo di lavoro. Una lunga preparazione e ambientazione, l’incontro con una comunità, l’identificazione di alcuni personaggi, mesi di riprese una volta resosi, in certo modo, invisibile alle persone filmate. Lo stile è quello del cinema diretto: nessuna voce over, nessuna musica. Per più di un anno il regista ha vissuto a Lampedusa, cercando di assimilare il quotidiano di una realtà che al pubblico arriva per lo più in forme superficiali e sensazionalistiche. Come nel film precedente, dal luogo vengono isolati alcuni personaggi e le loro storie, orchestrate poi nel consueto montaggio alternato (di Jacopo Quadri). Tra tutti spicca Samuele, dodicenne che vagabonda tra scuola e campagne, tiratore di onda con l’occhio pigro, figlio di pescatori ma sofferente di mal di mare, e anche un po’ ipocondriaco. Intorno a lui ruotano lo zio, la nonna, e sull’isola altre figure: un sub in cerca di ricci, il deejay della radio locale, una donna devota di padre Pio che gli richiede brani musicali. E soprattutto il medico del pronto soccorso, che cura le piccole emergenze del paese ma anche gli arrivi in massa di profughi sulle coste dell’isola. La sua confessione davanti alla macchina da presa, ripreso di sbieco davanti al monitor, è un momento altissimo del film, privo di ogni retorica. In una Lampedusa senza sole seguiamo i personaggi, le loro attività, i momenti di pausa, lo scorrere di un tempo quasi da fiaba. Su questo sfondo irrompe la drammaticità degli sbarchi, con le stive piene di corpi, le persone disidratate, i morti. Alla logica sensazionalistica, Rosi contrappone l’affetto minuto per i personaggi. Uno dei vantaggi che il cinema ha sul giornalismo è in effetti quello della vicinanza diretta, del prendersi il proprio tempo e il proprio spazio, andando oltre il reportage”.
A seguire anche le parole di Goffredo Fofi: ” C’è la Lampedusa dei migranti, delle navi che individuano e assistono gli scafi in cui sono stati ammassati, dei militari e marinai per lo più senza volto (coperti da igieniche maschere). Ci sono anche i morti, non potevano non esserci, in sacchi chiusi mostrati nella loro tremenda normalità, e c’è il racconto tragico ed epico che fanno i migranti del loro viaggio (nell’altro brano più struggente del film, con il canto rap nel centro di accoglienza). Ci sono i loro, di volti, i cui occhi hanno visto più volte la morte pronta a ghermirli. Le immagini sono sempre terse e bellissime, il montaggio sapiente, il coinvolgimento dello spettatore ogni volta, nei due film a cui assistiamo, suggerito senza violenza, con pudore e rispetto. Ma si resta tuttavia con l’impressione di due diversi film che non trovano un accordo, neanche formale, poiché nell’uno prevale il documento (i migranti) e nell’altro il film, la ricostruzione, il copione, secondo un modello che possiamo ben giudicare neorealista”.