Quattro anni condensati in circa 100 minuti per far rivivere a chi c’è stato e per far scoprire a chi non c’era il fenomeno senza eguali dei Fab Four, in The Beatles: Eight Days a Week. Il regista premio Oscar Ron Howard ripercorre le tappe salienti dell’ascesa degli “scarafaggi” più celebri del mondo, destinati a lasciare un segno indelebile nella cultura, nei gusti e nelle mode degli anni sessanta e, inevitabilmente, di quelli che sarebbero seguiti. L’occhio della cinepresa si apre sul Cavern Club di Liverpool nel 1962 e da lì, lungo prove in studio, tour e dietro le quinte, ci si muove vertiginosamente verso il grande concerto del Candlestick Park Stadium di San Francisco nel 1966. Dagli albori al boom, per intenderci: dal disincanto al successo planetario.

La minaccia di cadere nel didascalico sicuramente è in agguato; il regista di Rush riesce magistralmente a scongiurare questo pericolo strumentalizzando a proprio favore la ricostruzione cronologica degli eventi. L’arco temporale tra il 1962 e il 1966 è il fil rouge che guida l’evolversi del documentario, le cui maglie si aprono a interviste originali ai due survivors (Ringo e Paul) che dialogano con quelle d’epoca di George e John e con interventi di volti noti del calibro di Whoopy Goldberg e Sigourney Weaver, creando un tutto armonioso che colloca The Beatles – Eight Days a Week ben lungi da una mera e semplicistica ricostruzione cronologica degli eventi.

Del resto, tanto è stato detto e tanto è stato visto sui Beatles, per cui la sfida è palesemente quella di aggiungere qualcosa di ancora inesplorato. Ron Howard non solo la coglie ma la vince alla grande: ecco filmati inediti frutto di un maniacale lavoro di archivio (che inizia addirittura nel 2002) alternarsi a video amatoriali di scatenati fan di ogni parte del mondo. Proprio con quella massa, fedele e euforica, si articola una dialettica nella quale tutte le parti in causa non possono che uscirne condizionate nel profondo. Così, sullo sfondo di circa 150 estratti di brani, assistiamo al compiersi di una parabola: dal profilarsi del mito, con l’inevitabile onda d’urto che esso solleva, all’incrinarsi dello stesso, lasciando spazio all’emergere delle singole personalità che volgono ormai verso strade autonome e diverse. Sui tetti di Londra e sulle note di Don’t Let Me Down e I’ve Got a Feeling i magnifici quattro si accomiatano dalla scena, ormai sulle luci del viale del tramonto.

Ron Howard ci riserva infine un ultimo regalo: trenta minuti restaurati ad hoc del celebre concerto del 15 agosto 1965 allo Shea Stadium di San Francisco. Quasi come, nel lasciarci, volesse sussurrarci ancora una volta: let it be.

Federica Salini – Associazione Culturale Leitmovie