Tra i film proiettati all’interno della rassegna sul cinema francese Rendez-Vous, La meccanica delle ombre era stato presentato al Festival di Torino 2016 e passato in secondo piano rispetto agli altri film in competizione, nonostante un’accoglienza più che rispettosa da parte del cinefilo pubblico della rassegna. Accanto a lavori provenienti da nazioni emergenti o diretti da autori interessati alla sperimentazione di nuove forme espressive, il film francofono ha preferito misurarsi con un modello più consolidato, correndo non pochi rischi.
A Kruithof, intanto, sia concesso l’onore delle armi, non solo per aver esordito con una spy story, lavorando dentro i codici del genere senza eludere la tradizione, ma perché manifesta apertamente l’ambizione di parlare ad una platea internazionale non rinunciando alle tipicità della dimensione locale. Al di là delle intenzioni, i meriti sono soprattutto fattuali: le facce, i movimenti, i colori, le ombre.
Il protagonista, un cinquantenne disoccupato ed ex alcolista, accetta di lavorare per un oscuro funzionario che lo confina in un appartamento vuoto con l’incarico di trascrivere alcune intercettazioni telefoniche. Colto nel pieno del suo successo personale, François Cluzet è il common man che cerca di non cedere alla tentazione di mostrarsi un forgotten man dilaniato dalla crisi, sia essa economica o umana. La sua faccia racconta proprio l’immota ostinazione di chi continua a (soprav)vivere pur negando la vita stessa, in un perpetuo stupore di fronte al disagio imposto da destini cinici e bari, prigioniero di un meccanismo ostile, una macchina cospirazionista dominata da una sempre più incomprensibile ragion di Stato.
In un momento segnato da un arrembante rigurgito razzista influenzato dalla paura imposta dal terrorismo, Kruithof fa intelligentemente incarnare questo parastato da attori che rappresentano il radicato melting pot francese. Appaiono allora assolutamente pertinenti sia Simon Abkarian, origini armene, che Sami Bouajila, origini tunisine, facce da schiaffi che rivelano storie lontane e alludono ai trascorsi della nazione, messi accanto all’inquietante solennità di un volto come quello di Denis Podalydès, quasi sempre nell’oscurità dovuta al corpo sfuggente di un tenebroso pezzo d’apparato (la fosca fotografia è di Alex Lamarque). Con un siffatto repertorio, Kruithof potrebbe anche proporsi come un interessante prosecutore della tradizione polar, meno pessimista ed aspro del capofila Olivier Marchal. Ma è inevitabile pensare, non fosse altro per istinto, al celebre – e ormai remoto – catalogo americano sulla paranoia.
C’è certamente una componente politica locale molto importante, che illustra gli umori neri della società francese, tra temperamenti populisti e plumbei nazionalismi, ma ci sono suggestioni, spesso eccitanti, che alludono al disperato romanticismo de I tre giorni del Condor (benché la deviazione sentimentale con Alba Rohrwacher non funzioni del tutto), al cupo disincanto di Tutti gli uomini del presidente o Perché un assassino?, fino alle conseguenze di un mestiere in apparenza non pericoloso messe in scena da La conversazione. Tuttavia è miope ridurre ad un gioco citazionista questo thriller che fa della paranoia il referente sociale di un malessere personale e che, al netto di qualche perplessità (specie nella parte finale), sa intrigare quanto basta per scuotere uno spettatore europeo spesso un po’ pigro.
Lorenzo Ciofani