In sala in versione originale sottotitolata, È solo la fine del mondo ripropone il talento di Xavier Dolan, questa volta chiuso tra le quattro mura di una casa di famiglia ma pronto a squarciarne il perimetro con ricordi, sogni, memorie. Lo analizza per noi Stefano Careddu.
“Perché sei venuto?” è la domanda che tutti i membri della famiglia pongono a Louis (Gaspard Uillel), fratello maggiore di Suzanne (Lea Seydoux) e minore di Antoine (Vincent Cassel), figlio di Martin (Nathalie Baye), scrittore di successo tornato a far visita alla famiglia dopo dodici anni di assenza per annunciare la propria morte imminente. La domanda sorge quasi spontanea, nessuno si spiega quale sia la reale ragione di una visita dopo così tanto tempo, dopo così tanto silenzio, dopo una presumibile fuga dal nido famigliare. Al contrario il motivo dell’abbandono si fa immediatamente esplicito: non appena Louis varca la soglia dell’abitazione viene travolto, oppresso e bloccato sull’uscio per un tempo inverosimilmente dilatato, durante il quale Dolan, con sapienza, introduce le caratteristiche peculiari dei personaggi e incanala la vicenda verso quello che verrà. In questo frangente entra nella sua vita Catherine (Marion Cotillard), moglie di Antoine, che sembra essere il solo spiraglio di luce in una giornata piena di nuvole scure, anche se care.
La vicenda ruota attorno a una tavola da pranzo, è composta da scene corali, da flashback dell’adolescenza e della scoperta della sessualità, ma anche e soprattutto di sequenze vis-à-vis, in cui il protagonista si confronta con i personaggi, singolarmente, durante le quali si sprigiona la reale forza del film. Dolan mette assieme un grandissimo cast, che annovera alcuni tra i migliori attori di Francia, non si dimentica le origini e rimane legato a tematiche riguardanti il nucleo famigliare: Nathalie Baye la madre eccentrica che tutto perdona a quel che sembra essere il figlio prediletto, gli chiede di ricoprire il ruolo che non ha, quello di guida, di presenza forte nella vita dei fratelli, anche in maniera fittizia, facendogli promettere ciò che non potrà mantenere (ci si chiede se realmente questo personaggio è poi così ingenuo da non aver compreso la reale motivazione della visita del figlio). Léa Seydoux, sorella minore, ribelle, eccentrica, bella e innamorata di quel fratello maggiore che non conosce, rende un’interpretazione accurata e credibile, ma che forse è la meno complessa di tutte.
Il personaggio più esplosivo è Antoine, irrazionale e impulsivo, maleducato e violento, tradisce una ferita che si annida nella più profonda interiorità, che non è spiegata, ma che è presumibilmente figlia di problemi di comunicazione e di un’indole che sembra spesso avergli precluso profondità e soddisfazione nei rapporti umani. L’esempio lampante è l’atteggiamento che tiene nei confronti della moglie Catherine, sottomessa, costretta a subire le ingiurie del marito, e spesso a limitarne gli eccessi ma dotata di una sensibilità rara all’interno del mondo diegetico che le permetterà di essere la sola ad empatizzare realmente con Louis e comprendere il motivo della sua visita. Marion Cotillard lavora per sottrazione, sta sempre entro le righe, fornisce una prova misurata, fatta di espressioni soffocate e di emozioni che sembrano crescere in quegli occhi blu sempre sul punto di esplodere in un pianto disperato che non scoppia, ma al contrario implode internamente, facendo solamente percepire la sua presenza.
Dolan mette in scena una surreale reunion familiare nella quale il dramma dovrebbe essere la notizia della malattia di Louis, ma lo diventa l’incapacità di comunicazione e lo straniamento di un uomo che più nulla ha a che fare con la realtà familiare dove è cresciuto e che, di conseguenza non fa altro che creare scompiglio fisico e crisi emotiva in quello che poteva e voleva essere un normale pranzo domenicale. Louis non è mai realmente ascoltato, è sovrastato dal rumore delle parole di chi si aspetta qualcosa da lui, di chi è rimasto deluso o di chi ha sempre sofferto la sua personalità.
Come sempre sapiente metteur en scene di un’estetica del ricordo che facilmente riesce a far breccia nel cuore dello spettatore, alimentata da un puntuale e suggestivo commento sonoro, l’enfant prodige Dolan, giunto al sesto film (adattato dalla pièce omonima di Jean-Luc Lagarce del 1990) continua a stupire.
Stefano Careddu