Cinefilia Ritrovata continua il suo viaggio nella storia artigianale del cinema, con una nuova puntata curata da Federico Magni, questa volta dedicata alle magie che si creavano (prima del digitale) negli studi hollywoodiani.

“Se un visitatore interessato si fosse avventurato nella primavera del 1940 all’interno del teatro di posa nr. 21 della Warner Bros. (Burbank, nei pressi di Hennesy Street) avrebbe avuto dinanzi agli occhi uno spettacolo stupefacente: due riproduzioni di galeoni del sedicesimo secolo, a grandezza naturale e completi in ogni dettaglio – compresi gli alberi, le vele e il sartiame – si davano il fianco all’interno della struttura. Sorto al costo di novantamila dollari, con i quasi cinquanta metri di larghezza, ottantadue di lunghezza e ventisei di altezza, si configurava come il più grande teatro di posa a Hollywood e, probabilmente, al mondo ed era destinato alle pellicole ambientate in mare.

Alcune delle tematiche associate al cinema d’avventura riguardano i viaggi verso orizzonti lontani, la conquista di terre inesplorate, il dipanarsi dell’azione in scenari spaziosi. Con questi presupposti è logico che il genere sia caratterizzato da realizzazioni in esterni, location suggestive e paesaggi esotici. Tuttavia il girare in esterni non rappresenta una garanzia: per un godibilissimo Corsaro dell’isola verde (1952), girato a Ischia e nella Baia di Napoli, abbiamo un ansimante Pirates (1986) che pure conta su un regista prestigioso (Roman Polanski) ed un budget imponente. Oltre a lunghe riprese in esterni al largo delle coste tunisine e a Malta, la produzione finanziò la costruzione di un galeone lungo 63 metri, completo in ogni dettaglio ed in grado di navigare, oggi all’ancora nel Porto Antico di Genova come attrazione turistica.

Acquista quindi maggiore risalto quanto conseguito dalla Warner Bros. nel 1940 con Lo sparviero del mare (The Sea Hawk). Girato pressoché totalmente in studio (con brevi riprese in esterni a Calabasas e a Punta Mugu, California) è nondimeno attraversato da uno senso dell’avventura e da un ritmo senza cedimenti che ne fa un modello nel suo genere. La pellicola ereditava solo il titolo dal romanzo di Rafael Sabatini, già portato sullo schermo nel 1924 dalla First National, con la regia dell’esperto Frank Lloyd (Trafalgar, 1929; La tragedia del Bounty, 1935) e quattro navi corsare costruite a grandezza naturale sotto la supervisione di Frank Gabourie, direttore tecnico per Buster Keaton.

Dopo la crisi del mercato e le restrizioni tecniche seguite all’avvento del sonoro, pochissimi avevano tentato l’azzardo di portare grosse produzioni in mare aperto: vi provò la Metro-Goldwyn-Mayer, vincendo la scommessa con La tragedia del Bounty nel 1935. Quello stesso anno la Warner Bros. rilanciò il genere cappa e spada con Capitan Blood, sempre tratto da Rafael Sabatini, con la nuova star Errol Flynn, Michael Curtiz dietro la macchina da presa e il veterano Hal Mohr a curare la fotografia. Nei film successivi Flynn avrebbe avuto come cameraman di fiducia Bert Glennon e, nelle pellicole dirette da Curtiz, Sol Polito. Nato Salvatore Polito a Palermo nel 1892, giunto negli Stati Uniti a tredici anni, passò dietro la macchina da presa dopo una gavetta come fotografo di scena e tecnico di laboratorio. Militò in varie compagnie di produzione (IMBP, Biograph, Metro, Hunt Stromberg) prima di entrare stabilmente alla First National, dove il suo senso artistico valorizzò i film di Benjamin Christensen. Quando la compagnia fu assorbita dalla Warner Bros. Polito, assieme al connazionale Tony Gaudio (di cui era stato assistente agli inizi di carriera) ed a Hal Mohr, contribuì a definire lo stile visivo della casa, nei film drammatici (Io sono un evaso, 1932; Angeli dalla faccia sporca (1938), come nei musical (Quarantaduesima strada, 1933; Ribalta di gloria, 1942). La carica dei seicento (1936) segnò l’inizio della collaborazione con Michael Curtiz, ma Polito fu al servizio anche di Frank Capra (Arsenico e vecchi merletti, 1944) e Fritz Lang (Maschere e pugnali, 1946) e fotografò uno dei maggiori successi di Bette Davis (Perdutamente tua, 1942). Tra i suoi ultimi film La morte corre sul filo (1948) ne ribadì la statura di maestro del bianco e nero anche se numerosi furono i titoli di merito nel colore (La leggenda di Robin Hood e Occidente in fiamme, 1938; Captains of the Clouds, 1942). Si spense a Hollywood nel 1960.

Lo sparviero del mare mirava a ripetere il successo di Capitan Blood, riproponendo Flynn in panni pirateschi. Il personaggio di Geoffrey Thorpe era ispirato a Francis Drake, John Hawkins e Martin Frobisher, figure di primo piano nella guerra di corsa sotto il regno di Elisabetta I. Le esigenze produttive portarono a girare quanto possibile all’interno dello studio. Polito ebbe a dichiarare: ‘C’è una tendenza crescente in ogni compagnia di filmare il più possibile delle sequenze esterne di un film nelle condizioni di assoluto controllo offerte da un teatro di posa…in molti stabilimenti sono stati costruiti teatri di posa nuovi e sempre più grandi a questo fine…Credo che proprio il mio studio – Warner Brothers – sia stato un capofila in questa direzione.’ (American Cinematographer, Giugno 1941)

Le parole di Polito commentavano quanto avvenuto più di un anno prima. Il 15 Febbraio 1940 si celebrava, con un varo al chiuso, la fine della costruzione dei due velieri all’interno dello stage 21, dopo undici settimane di lavoro e di un costo complessivo di centocinquantamila dollari. Il Sea Hawk, la nave da guerra inglese, misurava quarantuno metri e pesava intorno alle centoventisette tonnellate; il galeone spagnolo Madre de Dios era lungo cinquanta metri e pesante 142 tonnellate. Gli alberi di entrambi i vascelli svettavano per quasi venti metri, dal ponte alla cima e gli scafi poggiavano su piattaforme mosse da apparati idraulici per indurre oscillazioni e beccheggi sia laterali che longitudinali. Inoltre il Sea Hawk poteva avvicinarsi all’altra nave grazie a sostegni circolari inseriti su rotaie. Lo spazio tra le fiancate poteva essere riempito d’acqua fino ad una altezza di quattro metri. In questa imponente ribalta Curtiz girò la maggior parte delle scene d’azione, compresi gli arrembaggi e la fuga notturna dalla galera spagnola.

Per rimanere all’interno nel budget venne presa la decisione di riutilizzare i set costruiti per Il conte di Essex (1939), produzione in Technicolor con Bette Davis e Errol Flynn, ambientato anch’esso durante il regno di Elisabetta I. Polito e lo scenografo Anton Grot passarono dalle sgargianti tonalità di Essex ad un vivido chiaroscuro, che richiamava le incisioni di Gustave Dorè. Grot era nato Antocz Franciszek Groszewski in Kelbasice (Polonia) nel 1884. Studiò alla Accademia delle Arti di Cracovia ed all’Istituto Tecnico di Konisberg prima di trasferirsi negli Stati Uniti nel 1909. Architetto di scena ed illustratore in compagnie quali Lubin, Astoria, Vitagraph e Pathè, si stabilì a Los Angeles nel 1922. Furono i lavori al servizio di Douglas Faibanks (Il ladro di Bagdad, 1924, per cui disegnò anche il suggestivo manifesto) e Cecil DeMille (Il re dei re, 1927) a metterlo in luce. Nel 1927 entrò alla First National e, quando quest’ultima fu assorbita dalla Warner Bros., divenne lo scenografo principale della compagnia. Artista dal tratto moderno, spesso caratterizzato da un approccio espressionista e da una gestione magistrale degli spazi, si mosse con sicurezza in tutti i generi, dal musical (La danza delle luci, 1933) al gangster-movie (Piccolo Cesare, 1930) al melodramma (Il romanzo di Mildred, 1945), dall’horror (La maschera di cera, 1933) al fantastico (Svengali, 1931), dalla ricostruzione storica (Emilio Zola, 1937) alla trasposizione da Shakespeare (Il sogno di una notte di mezza estate, 1935). Ritiratosi nel 1948, morì a Stanton (California) nel 1974. Dopo Capitan Blood, Grot era la scelta ovvia per Lo sparviero del mare, anche per la capacità di sfruttare al meglio gli ambienti e le architetture di Essex. La corte di Elisabetta, il palazzo del re di Spagna, il tribunale dell’Inquisizione furono alcuni dei set riadattati dalla precedente pellicola. Il conte di Essex e Lo sparviero valsero a Grot le ultime (infruttuose) nomination della sua carriera, ma l’artista ottenne un Oscar nella categoria dei premi scientifici e tecnici grazie ad un procedimento per riprodurre onde e increspature. L’invenzione (registrata all’Ufficio Brevetti il 2 settembre 1941 con il numero 2254650) era descritta da Grot come ‘una struttura per i set che simula la superficie ondosa di uno specchio d’acqua naturale’ e venne applicata durante le riprese de Lo sparviero del mare nel teatro 21, posizionata sotto il grande ciclorama che riproduceva l’orizzonte marino ed il cielo sovrastante. La scelta del bianco e nero consentì di usare sequenze da Capitan Blood (l’arrembaggio dei corsari, il fuoco dalle murate) e dalla produzione First National Trafalgar (1929), anche se quest’ultima era ambientato durante le guerre napoleoniche, quasi duecento anni dopo le gesta di Drake e compagni. Le scene in studio furono ampliate con l’impiego di matte painting (i galeoni in rada, la corte inglese) e di miniature (le navi sull’oceano a vele spiegate, fotografate da Hans Koenekamp sotto la supervisione di Byron Haskin) talmente convincenti da giustificare la nomination all’Oscar. L’uso di modellini e di set in scala ridotta costituiva uno dei punti di forza del dipartimento effetti visivi: l’unità accessori e miniature era guidata da James Gibbons ed annoverava esperti quali W. G. ‘Gus’ White (caposquadra ed artefice delle miniature di King Kong, 1933), Jess Vasques, Merl Clary, Alec Volz, Robert Dibb e Morris Watkins.

Il successo del film ripagò la compagnia delle spese ed il teatro di posa servì da ambientazione per nuove realizzazioni fino al 1952, quando venne distrutto da un incendio. Il Sea Hawk venne trasformato nel Ghost, la nave mercantile capitanata dallo spietato Wolf Larsen (Edward G. Robinson) per l’ennesima versione de Il lupo dei mari (1941), ispirato a un racconto di Jack London, che valse una ulteriore nomination al dipartimento effetti speciali.

Tornando all’ignoto spettatore mandato ad esplorare gli studi Warner, se questi si fosse fermato all’esterno del teatro di posa nr. 16 nella primavera del 1941 avrebbe udito i suoni tipici di una caccia alla volpe. All’interno dell’imponente edificio (quasi trenta metri di altezza) era sorta, su una superficie complessiva di 3100 metri quadrati, una intera vallata montana, con colline e creste rocciose ed un corso d’acqua che si snodava per più di sessanta metri.

La maggiore produzione Warner di quell’anno era Il sergente York (Sergeant York), diretto da Howard Hawks, con Gary Cooper nei panni di Alvin York, uno dei maggiori eroi di guerra americani del primo conflitto mondiale. Reclutato nonostante fosse obiettore di coscienza York, durante l’offensiva delle Argonne (ottobre 1918) catturò, assieme a sette commilitoni, 132 tra soldati ed ufficiali tedeschi. Secondo un’intervista a Hawks di Peter Bogdanovich [1967], quell’anno [1941] vi erano state piogge insistenti in California e la prospettiva di girare a Valley Fork (Tennessee), nelle terre native di Alvin York, non era perseguibile per i costi e le difficoltà logistiche. La Warner Bros. disponeva dei teatri di posa più grandi di Hollywood e Hawks, grazie alla presenza di Gary Cooper, ottenne di poter girare la maggior parte della storia in interni. La parte costruita in studio era una riproduzione della Valle delle Tre Forche del Lupo, situata tra le montagne del Cumberland. Il gigantesco set venne edificato dalle squadre del capo carpentiere Henry Fuhrmann, impegnate su tre turni per dieci giorni. (Fuhrmann era cognato di Christian Nyby, che per Hawks montò Il grande sonno e Il fiume rosso e diresse La cosa da un altro mondo). Intorno a sporgenze rocciose e promontori scoscesi, fu piantato un totale di 121 alberi tra cui pini, querce e 75  cedri. Un pendio venne ricoperto con uno strato di terra profondo mezzo metro per permetterne l’aratura e il reparto attrezzistica di James Gibbons eresse la replica di un mulino a tre ruote. Hawks ricorda di aver avuto sfruttare settantotto diverse angolazioni per raccontare la vita rurale di York, ed i set permisero di girare in interni una caccia alla volpe e riprendere Cooper intento alla aratura del suo podere.

L’elemento più singolare era un promontorio girevole, alto dodici metri e venti, montato su una piattaforma circolare del diametro di dieci metri e mezzo di diametro e pesante sessanta tonnellate. Variando la posizione del promontorio rispetto alla macchina da presa si potevano ottenere punti di vista differenti (fino a un massimo di sedici angolazioni) anche grazie ad una serie di elementi di scena (picchi, alberi, cespugli, piani inclinati) piazzabili a scelta nell’inquadratura. Un lato della scena era occupato da un enorme ciclorama, sul quale variazioni di luce potevano replicare atmosfere notturne o la piena luce del giorno. E’ su questo promontorio che Gary Cooper recita una delle scene più intense del film, quando York arriva alla decisione di prendere parte attiva al conflitto.

‘Feci presente ai dirigenti dello studio che la scelta [di filmare in interni] non solo si sarebbe dimostrata più economica in termini di tempo e denaro ma ci avrebbe consentito, ponendo ogni procedura fotografica e sonora sotto assoluto controllo, di ottenere effetti migliori e più convincenti sullo schermo.’ La considerazione di Polito trova riscontro nella resa incisiva delle immagini, che mantiene alta l’attenzione sui personaggi. Le scene di combattimento vennero fotografate da Arthur Edeson, il grande operatore di All’Ovest niente di nuovo (1930). Quello stesso anno Edeson riprese Il mistero del falco, esordio alla regia di John Huston, che era stato tra gli sceneggiatori de Il sergente York. Il film di Hawks ebbe i maggiori incassi tra le produzioni Warner uscite nel 1941 e ricevette undici candidature all’Oscar, vincendo le statuette per il migliore attore (Cooper) ed il montaggio (William Holmes). Polito ottenne la sua unica nomination nel campo del bianco e nero (altre due giunsero per la fotografia a colori de Il conte di Essex e Captain of the Clouds) ed il film venne candidato anche per la scenografia, opera di John J. Hughes. Specialista nel convertire set e location, Hughes era originario del Missouri (nacque a Kansas City nel 1882) e fece pratica come carpenterie presso gli studi Ince, per poi diventare scenografo alla Metro. Operò per la produzioni di Jackie Coogan e Frank Lloyd per poi approdare alla First National poco prima che questa venisse assorbita dalla Warner Bros. Trasformò la San Fernando Valley nella Crimea del diciannovesimo secolo per La carica dei seicento (1936), il Red Rock Canyon ne La foresta pietrificata (1936) e ricreò Fort Lincoln (sede del Settimo Cavalleria) nel Ranch della Warner a Calabasas per La storia del generale Custer (1942). Dopo Il sergente York ebbe altre due nomination, per il film rivista This Is the Army (1944) e la biografia di Mark Twain Il pilota del Mississippi (1944), e si ritrovò con Hawks per il viaggio del bombardiere Mary Ann ne L’arcipelago in fiamme (1943). Quando John Huston decise di girare Il tesoro della Sierra Madre (1948) principalmente in esterni, Hughes trovò l’ambientazione adatta nelle montagne attorno al villaggio messicano di Jungapeo, a sud di Durango. L’ultima magia di Hughes prima del ritiro (morì a Los Angeles nell’ottobre del 1954) fu dispensata per un’opera considerata oggi un classico della fantascienza. Se il nostro solito spettatore avesse visitato il Ranch della RKO ad Encino (California) nel gennaio del 1951 avrebbe trovato una serie di basse costruzioni semisepolte da sale e masonite temperata: la base artica innevata dove si aggirava La cosa da un altro mondo“.

 

Federico Magni