Si può dire con sicurezza che questa edizione del Cinema Ritrovato sia decisa soprattutto a proiettare quelle opere che sono riuscite ad influenzare in un tal modo l’industria cinematografica da risultare iniziatrici di nuovi generi: questo è stato Scarface di Hawks per il genere dei gangster movie, La notte dei morti viventi di Romero per i zombie movie ed infine Monterey Pop per il fortunatissimo filone dei cosiddetti concert movie, avendo ispirato negli anni seguenti la documentazione capillare da parte di tanti altri cineasti di eventi come Woodstock e il concerto a Pompei dei Pink Floyd.
Girato in 16mm su delle allora modernissime macchine da presa maneggiate, per le riprese, da non più di cinque operatori, il film del regista, premio Oscar alla carriera, D. A. Pennebaker ci trasporta all’interno del Monterey Pop Festival, svoltosi in California dal 16 al 18 giugno 1967 e che vide la partecipazione di artisti come Jimi Hendrix, Janis Joplin, Simon & Garfunkel, i Jefferson Airplanes e i Who solo per citarne pochi, acclamati da una folla di più di 55.000 persone.
Sembrerebbe strano paragonare un documentario come questo, che funge da testimonianza di un evento realmente accaduto, ad un film di finzione molto più popolare come Il laureato. Oltre alle musiche di Simon & Garfunkel e all’anno di uscita, verrebbe da dire, queste due pellicole non hanno praticamente niente in comune: a chi verrebbe in mente di confrontare un documentario con un film vero e proprio? E invece queste due opere condividono la fondamentale ed importantissima testimonianza di un’energia nascosta, fino a quel momento celata, che solo in quegli anni cominciava a palesarsi negli animi giovani, un’energia che osava mettere in dubbio le gerarchie, la sensibilità, i paradigmi dell’epoca per proporne di nuovi, un’energia che presto, liberandosi, sarebbe diventata in tutto il mondo aperta protesta.
In Monterey Pop quest’energia è percepibile ovunque, dai giovani e dalle giovani del pubblico che restano a bocca aperta davanti alla fantastica esibizione di Janis Joplin, dalla violenza di Pete Townshend e di Jimi Hendrix che, quasi per suggellare le loro esibizioni, distruggono la chitarra con la quale, pochi istanti prima, hanno donato al pubblico degli assoli fantastici e senza tempo. Un’energia che allora forse poteva essere contenuta nella vita di tutti i giorni per poi essere sporadicamente liberata durante questi rari eventi, ma che presto sarebbe esplosa in tutta la sua violenza pacifica operando una vera e propria rivoluzione dei costumi e delle società mondiali. D. A. Pennebaker ci porta all’interno di quest’energia, ci porta nel suo nucleo, filmandone ogni piccola manifestazione negli occhi degli astanti. Infatti Monterey Pop non è affatto concentrato sugli artisti, limitandosi a filmare praticamente soltanto i loro gesti più eclatanti o le esibizioni più memorabili, ma è catturato dal pubblico, dalle sue reazioni e dalle sue espressioni, dai loro occhi fissi sui loro idoli o chiusi in meditazione durante la performance lunghissima e psichedelica del godfather, come lo chiamava George Harrison, Ravi Shankar.
E così, insieme all’immagine, diventata mito, di Jimi Hendrix che, come in un rituale, sacrifica la propria chitarra dandole fuoco, vi è l’espressione di shock fissata nelle facce interdette, eppure abbandonate, di quell’audience così variegata e con gusti così differenti, eppure così affini. Le immagini spesso sfuocate, la comicità involontaria di alcune imbarazzanti interviste ai fan accampati nei dintorni del palco non fanno altro che donare alla pellicola un’aurea di amatorialità, quasi di artigianalità che troppo spesso oggi, in molte opere cinematografiche e televisive, è ricercata ardentemente e finta attraverso un’artificialità troppo evidente. Monterey Pop è una preziosissima testimonianza che documenta, in un certo modo, il silenzio assordante prima della tempesta, soffermandosi su un pubblico ancora elegante e abbastanza compito, su una Janis Joplin lontana dai vestiti “fricchettoni” che la caratterizzeranno nella Summer of Love, ultime testimonianze di una cultura sul punto di morte, forzatamente fatta accettare a persone che non ne sono più l’espressione. E così, come ne Il laureato, la voglia di ribellione si legge negli occhi e nei movimenti, una ribellione che non potrà più essere repressa a lungo.