“Le déluge” e l’altra faccia della Storia
Si tratta di una discesa demoniaca raffigurata attraverso il codice espressivo dello spazio, che racchiude in sé la deposizione del potere monarchico e la svestizione simbolica del re e della regina in comuni cittadini che si aggrappano alla speranza di essere assolti nel processo che li dichiarerà poi colpevoli contro la sicurezza generale dello Stato. L’elemento formale che crea l’autentica rivoluzione del film è il ribaltamento di prospettiva, l’altra faccia della medaglia che ricorda alla Storia di includere tutti i punti di vista, non soltanto quello dei vincitori.
“Napoli-New York” fiaba semplice con pennellate di critica sociale
Tolta l’insistita critica al classismo, il tono complessivo dell’opera è fiabesco e positivo, spesso divertente, dickensiano con ben dosati climax di amarezza e tragedia. Ottime anche le interpretazioni dei giovanissimi protagonisti, Dea Lanzaro e Antonio Guerra, la prima nei panni di una bambina sensibile quanto agguerrita, il secondo in quelli di un irresistibile furbetto, un orgoglioso e cocciuto maestro nell’arte di arrangiarsi.
“Eterno visionario” biopic consapevole e rassegnato
Tutto si fonde e si confonde, il teatro e il cinema si specchiano e si riflettono specularmente, vestendo l’uno i panni dell’altro, nel tentativo di indagare la vita e il significato insondabile della sua stessa rappresentazione. La cinepresa inerme non può far altro che seguire fedele quei personaggi instabili e scandalosi per gli anni, dalla prima assoluta de I sei personaggi in cerca d’autore al teatro Valle di Roma nel 1921 a Nostra Dea dell’amico Massimo Bontempelli, messa in scena dalla compagnia del Maestro al teatro Odescalchi nel 1925.
“La cosa migliore” e il giudizio sospeso
La macchina da presa di Federico Ferrone segue con sicuro piglio documentaristico i personaggi di La cosa migliore attraverso gli spazi del nostro Nord-Est post-industriale, freddi e sovrastanti nella loro monumentalità. Parcheggi e bar dove si cercano forme di creatività e di aggregazione, casermoni geometrici dove la vita famigliare non ha spazi di riservatezza per elaborare perdite o sentimenti di intimità, fabbriche senza più una catena di montaggio ma comunque alienanti e sempre organizzate secondo un’ottica di caporalato e nonnismo.
“Terra incognita” e i confini tra natura e industria
Terra incognita compie una complessa ricerca iconografica, fatta di accostamenti di paesaggi naturali e industriali, apparentemente opposti, che tuttavia contengono, al loro interno, continui rimandi all’altra realtà, non solo nel carattere monumentale delle Alpi e della costruzione della centrale, ma anche in dettagli apparentemente minori, come le immagini di porte, antri e tunnel che contraddistinguono sia la natura che l’impianto nucleare.
“Berlinguer – La grande ambizione” e la magnifica affabulazione
Il Berlinguer di Segre è uomo di ascolto e di parola. In un paese in cui si cominciano a manifestare le idee a voce alta e per slogan (negli ormai prossimi anni ’80 il marketing verbale sarà l’incipiente virus che contaminerà il linguaggio “governativo”) il leader del PCI, imperterrito, continua a scrivere (le ultime sequenze della pellicola lo mostrano mentre legge un’intima lettera all’amata moglie) e declamare meditate dissertazioni, semplici e di toccante profondità per empatia e capacità di osservazione.
“Parthenope” speciale II – Un cinema sfiduciato e pigro
Passano gli anni e con gli anni non passa, dopo ogni nuovo film di Sorrentino, l’impressione di un equivoco, scomodo e duraturo. Nonostante le dichiarazioni d’amore e le reiterate professioni di fede – dalle frasi testamentarie del regista interpretato da Harvey Keitel in Youth all’aforisma sul cinema che non serve a niente ma almeno distrae dalla realtà, perché “la realtà è scadente”, attribuito a Fellini in È stata la mano di Dio – quello di Sorrentino si è rivelato man mano un cinema sempre più sfiduciato e a volte, diciamolo pure, ingiustificatamente pigro.
“Parthenope” speciale I – L’opera-leviatano tra Napoli e il mondo
Se È stata la mano di Dio (2021) offriva allo spettatore una Napoli “vissuta da dentro”, filtrata dalla lente autobiografica alla maniera del suo nume Fellini, Parthenope torna sugli stessi temi con uno sguardo diverso, meno intimo ed estremamente più ambizioso. L’impressione è che stavolta Sorrentino miri (quasi melvillianamente) a scrivere il Grande romanzo della città, l’opera-leviatano in grado di esaurire un argomento contenendo in sé tutto il mondo, o almeno quel “mondo” che è Napoli.
“Vittoria” nella storia finta di una vita vera
Cassigoli e Kauffman filmano tutto come se fossimo in un documentario, pedinando i personaggi con camera a mano traballante quando sono in movimento, e passando dall’uno all’altro con messe a fuoco incerte durante i dialoghi. E se la convergenza fra documentario e fiction è una caratteristica precipua dei nostri anni, Vittoria ha un sapore ancor più marcato da “storia finta eppure totalmente vera”, con attori che portano in scena un re-enactment di snodi fondamentali della propria vita.
“Familia” tra sacrificio e castigo
Quella di Familia non è di certo una storia nuova o mai vista; tuttavia, è una storia, ahinoi, ancora molto radicata nella realtà e quindi ancora necessaria. Costabile mette lo spettatore di fronte alla distruzione, fisica ed emotiva, a cui la violenza domestica può condurre, oltre che alle conseguenze devastanti e ai danni irreparabili che tale persecuzione può provocare come in un tunnel in fondo al quale non si vede mai la luce.
“Bestiari, Erbari, Lapidari” e il catalogo come comprensione umana
Bestiari, Erbari, Lapidari è un film che si pone da subito come un elenco: un titolo che è già un indice, un film che è già consapevolmente un catalogo. Massimo D’Anolfi e Martina Parenti sanno che si può partire solo con delle distinzioni precise. Se nel loro precedente Guerra e pace l’indice era temporale (passato remoto, passato prossimo, presente e futuro) qui è tipologico: Bestiari, Erbari, Lapidari. Una tautologia. Tre soggetti che rimandano a tre sfere, tre universi, tre dimensioni precise… universali, ma specifiche: animali, vegetali e minerali.
“Il tempo che ci vuole” e il ritratto amorevole del padre
I ricordi e le esperienze personali, prima di farsi prodotto artistico, hanno spesso bisogno di un lungo arco temporale per fermentare e trovare le parole e le immagini giuste per farsi racconto e storia universali. È quello che è accaduto a Francesca Comencini nella realizzazione di un film che è un atto d’amore verso il proprio padre. Infatti, oltre alla regia elegante e ordinata, a investire lo spettatore è una emozionalità potente che scaturisce da un sentimento profondo per una figura paterna caratterizzata dalla gentilezza e dalla bontà.
“Campo di battaglia” nel corpo dei feriti
Campo di battaglia si ispira al romanzo La sfida (2020) di C. Patriarca, ma deve, forse, il titolo a un lavoro precedente dello stesso scrittore: Il campo di battaglia è il cuore degli uomini (2013). Ed è al cuore degli uomini che Amelio colpisce con la sua opera, filmando con delicatezza e sobrietà la brutalità della guerra e la ricerca, disperata, di umanità: una riflessione sempre attuale e potente, resa con uno stile classico ma efficace.
“La vita accanto” e la macchia della famiglia
La macchia di Rebecca, metafora di una sorta di indicibile colpa che grava sulla famiglia è l’espediente narrativo per sviluppare i tanti, forse troppi temi affrontanti nel film quali la claustrofobia della provincia bigotta, il disagio psichico legato alla maternità, la paura della diversità, la forza salvifica dei legami autentici e delle passioni che riabilitano l’umano a una vita degna di essere vissuta. Uno dei meriti del film di Giordana è di smascherare sin da subito la mistica della femminilità che vuole la donna naturalmente e obbligatoriamente madre (e moglie) felice.
“Invelle” in nessun posto in particolare
Invelle, il primo lungometraggio animato di Simone Massi – noto ai più per i suoi cortometraggi e al festival di Venezia per manifesti e sigle – sembra immergersi in un subconscio italiano fatto di soprusi e violenze, di rabbia e di vendette. E chiedersi: cosa ci faceva paura? Cosa ci faceva arrabbiare? Cosa ci spingeva alla violenza? Al dolore, agli addii, alle miserie? Invelle è il non luogo della provincia italiana, il “nessun posto in particolare”.
“I dannati” e la separazione dal mondo
Man mano che I dannati procede, il gruppo dei protagonisti si frammenta, i personaggi cambiano, le aspettative e le illusioni cedono, lungo un percorso ossimorico di dannazione e di ascetismo, di separazione dal mondo. Un lavoro unico che vuole riappropriarsi di un modo di conoscere e riscrivere la storia, grazie a un regista che non si lascia guidare solo dalle proprie intuizioni, bensì recepisce ed elabora le tensioni del mondo esterno, presente, passato e forse un po’ anche futuro.
“Una storia nera” come gruppo di famiglia in un interno
“Troppo azzurro” senza moralismi e assoluzioni
Piena di battute folgoranti, Troppo azzurro è una commedia misurata e non banale, ben recitata e ben scritta, con uno sguardo personale e originale, un suo ritmo (grazie anche alla musica di Pop X), dei bei personaggi, capace di dire qualcosa sul presente, sulle incertezze e sulle paure dei ventenni (e non solo sulle loro), senza moralismi o assoluzioni. Per un’opera prima, non è veramente niente male.
“Confidenza” inusuale per il cinema italiano
Con Confidenza Luchetti realizza un quadro accurato della meschinità umana, di quella condizione che contraddistingue il panorama piccolo borghese italiano, tanto dal punto di vista psicologico quanto da quello sociale. Allo stesso tempo costruisce un’opera inusuale per il cinema italiano contemporaneo, regalando al pubblico un film complesso, quasi sperimentale, soprattutto dal punto di vista estetico.
“Gloria!” nell’alto della musica
Gloria! presenta la vita di cinque abitanti dell’Istituto Sant’Ignazio; Lucia, Bettina, Marietta e Prudenza studiano musica con il Maestro Perlina, mentre Teresa lavora nell’orfanotrofio come domestica. Le loro vicende si susseguono sulle note di archi e pianoforte facendo della musica la sesta protagonista del film. È la musica che crea e comanda i rapporti tra i vari personaggi, è la musica che assume un ruolo centrale nel direzionare la storia ed è la musica che permette la liberazione dei corpi e soprattutto delle menti.
“Il vento soffia dove vuole” e lo stesso fa il cinema
Marco Righi mette in dialogo la storia di un lutto e di una fede, mentre il resto lo lascia a una spaesante attesa. Poi prende l’atteggiamento sinfonico e naturalistico di certo cinema italiano che va da Piavoli a Frammartino, passa dalla contemplatività emergente del cinema internazionale degli ultimi vent’anni, per arrivare con convinzione al trascendente nel cinema, quello di Schrader, attorno a cui fonda tutta l’ossatura di un film fatto di distanze oltre che di attese, costruito su un approccio fisico, materiale, immanente.