“Troppo azzurro” senza moralismi e assoluzioni

Piena di battute folgoranti, Troppo azzurro è una commedia misurata e non banale, ben recitata e ben scritta, con uno sguardo personale e originale, un suo ritmo (grazie anche alla musica di Pop X), dei bei personaggi, capace di dire qualcosa sul presente, sulle incertezze e sulle paure dei ventenni (e non solo sulle loro), senza moralismi o assoluzioni. Per un’opera prima, non è veramente niente male.

“Confidenza” inusuale per il cinema italiano

Con Confidenza Luchetti realizza un quadro accurato della meschinità umana, di quella condizione che contraddistingue il panorama piccolo borghese italiano, tanto dal punto di vista psicologico quanto da quello sociale. Allo stesso tempo costruisce un’opera inusuale per il cinema italiano contemporaneo, regalando al pubblico un film complesso, quasi sperimentale, soprattutto dal punto di vista estetico.

“Gloria!” nell’alto della musica

Gloria! presenta la vita di cinque abitanti dell’Istituto Sant’Ignazio; Lucia, Bettina, Marietta e Prudenza studiano musica con il Maestro Perlina, mentre Teresa lavora nell’orfanotrofio come domestica. Le loro vicende si susseguono sulle note di archi e pianoforte facendo della musica la sesta protagonista del film. È la musica che crea e comanda i rapporti tra i vari personaggi, è la musica che assume un ruolo centrale nel direzionare la storia ed è la musica che permette la liberazione dei corpi e soprattutto delle menti.

“Il vento soffia dove vuole” e lo stesso fa il cinema

Marco Righi mette in dialogo la storia di un lutto e di una fede, mentre il resto lo lascia a una spaesante attesa. Poi prende l’atteggiamento sinfonico e naturalistico di certo cinema italiano che va da Piavoli a Frammartino, passa dalla contemplatività emergente del cinema internazionale degli ultimi vent’anni, per arrivare con convinzione al trascendente nel cinema, quello di Schrader, attorno a cui fonda tutta l’ossatura di un film fatto di distanze oltre che di attese, costruito su un approccio fisico, materiale, immanente.

“Un altro ferragosto” e l’incerto scenario umano

Forse per demarcare una differenza rispetto a tanta altra commedia italiana odierna da cassetta, Virzì filma il tutto con moltissima camera a mano, muovendosi da un gruppo di soggetti all’altro in piani sequenza coreografati, concedendosi il guizzo di alcuni montaggi interni per mettere l’accento su elementi di sfondo. L’effetto finale, però, più che autoriale, sconfina sorprendentemente verso territori mucciniani.

“Caracas” nel rimpianto di una Napoli confusa

D’Amore ricerca in maniera quasi ossessiva una risposta emotiva dello spettatore. Dimostra un buon occhio registico  e una mano piuttosto sicura, con l’eredità della serie Gomorra che lo spinge a un approccio visivamente ricercato e di ambizione internazionale, come già ne L’immortale. Il suo stile narrativo è però qui infarcito di troppi punti esclamativi e, per quanto si tratti di un registro omogeneo alla contemporaneità, ciò non giova all’evidente ricerca di una singolarità autoriale.

“Volare” indecisi tra autobiografismo e commedia

Buy ha dichiarato di aver girato Volare sentendosi Carlo Verdone su una spalla, e Nanni Moretti sull’altra (vista la scena dello spot pubblicitario di Daniele Luchetti in Aprile, parrebbe sulla carta un vissuto alquanto ansiogeno). Di fatto, non riesce a trovare la vera quadra fra autobiografismo e commedia, non concedendo abbastanza del proprio lato confessionale al primo, e non curando a sufficienza l’induzione alla risata per una piena riuscita della seconda – con le battute più azzeccate già presenti nel trailer, come troppo spesso accade.

“Finalmente l’alba” e le illusioni perdute

Finalmente l’alba, soprattutto all’inizio, sembra dialogare proprio con Bellissima: anche qui abbiamo una madre che vorrebbe vedere sua figlia entrare nel mondo dello spettacolo, ma, a differenza della pellicola di Visconti, questo è solo lo spunto iniziale per parlare di altro. Tuttavia questa prima parte sembra essere la più ispirata, quella dove Costanzo riesce a dipingere al meglio l’Italia del dopoguerra, portando avanti l’affresco storico iniziato già con L’amica geniale. 

“Te l’avevo detto” e l’apocalisse collettiva

Dopo il buon successo di critica ottenuto con il suo esordio, Magari (2020), Ginevra Elkann ritorna ad occuparsi di una serie di coppie disfunzionali con Te l’avevo detto, sceneggiato sempre insieme a Chiara Barzini con l’aggiunta di Ilaria Bernardini. Diversamente dal primo film, non sono tanto i legami sentimentali quanto le dipendenze e gli incubi del passato a caratterizzare i rapporti tra i personaggi.

“Il punto di rugiada” e gli ospiti della memoria

Il punto di rugiada è la temperatura di raffreddamento dell’aria che consente il processo di condensazione del vapore acqueo ivi presente e può creare, a volte, le condizioni per una nevicata. Questo è il concetto fisico che ha ispirato il titolo del film di Marco Risi ma inevitabilmente vi è anche un significato metaforico che allude al punto di trapasso dell’esistenza umana.

“Enea” che prima afferma e poi nega se stesso

Castellitto, insieme ad altri come i fratelli D’Innoncenzo, sembra che stia mettendo in pratica delle prove, procedendo in modo empirico, affermando e poi negando, prima a sé stesso, poi a noi, chiedendoci qualcosa in più, di seguirlo, di andare oltre. Dovremmo capire però – lo capiremo sicuramente in futuro – se questi tentativi porteranno da qualche parte o se saranno proprio la cifra stessa di questi lavori all’insegna di un cinema digitale frammentato.

“Diabolik – Chi sei?” secondo lo sguardo di Eva Kant

Se l’intera trilogia costituisce un’esperienza visiva singolare e seducente per l’uso sapiente del colore e per il rigore filologico nel trasporre sullo schermo l’eleganza stilizzata delle tavole originarie, nell’ultimo capitolo i Manetti Bros abbandonano parzialmente la scelta stilistica di aderire alla fissità grafica dei fumetti che in qualche modo congelava l’azione nei due film precedenti e sviluppano la diegesi del film su più linee narrative, mischiando registri stilistici ed epoche differenti.

La catabasi suicida della “Chimera”

È difficile capire dove, in Arthur, finisca la combattuta fascinazione per i corredi funerari che dissacra e dove inizi il sospetto che, se profana abbastanza tombe, prima o poi troverà quella che cerca. È l’ambivalenza dell’Appeso, la carta dei tarocchi richiamata dalla locandina del film: “Una carta di “gioiosa resa” – ha scritto Francesca Matteoni – oppure “di blocco e sacrificio doloroso”. E l’Appeso è “esplicitamente un condannato, uno sciamano, un esule, un criminale, qualcuno che ha il coraggio paradossale di arrendersi”. 

“La chimera” e l’insistenza delle rovine

I tombaroli di Alice Rohrwacher cercano l’Etruria e non l’Italia, vogliono gli oggetti, i soldi, il riscatto, eppure pedinandoli il film scava gli strati, non alla ricerca di linee temporali, ma dei punti di insorgenza. Non l’origine, ma la nascita delle condizioni. Non la cronologia, ma il “tempo profondo”. In questo senso l’archeologia sembra una futurologia, una ricerca dei futuri perduti, di quelli non scelti. La cultura etrusca come società a genealogia femminile, matriarcale.

“Mary e lo spirito di mezzanotte” minuzioso e internazionale

Enzo D’Alò guarda all’Irlanda trovando in Roddy Doyle la penna con cui confrontarsi. Sa bene di avere tra le mani del materiale ottimo per la sua sensibilità. Dunque, con la giusta esperienza maturata in carriera, rilancia la sfida concentrandosi, come forse mai fatto in maniera così ambiziosa sino a oggi, sulla forma del suo film. L’animazione ha un sapore internazionale per la fluidità del tratto e la complessità della regia.

“Mur” e la denuncia senza grida

Mur è un film che ha la forza di denunciare senza il bisogno di gridare, le immagini sono chiare e non servono troppe chiarificazioni. Così la camera scorre sui militari disposti al confine, sulle tecnologie repressive tra droni e telecamere termiche e si resta impressionati di fronte all’enorme dispendio economico predisposto dal governo per un compito così irrazionale e disumano. La regista sceglie di non aggiungere parole, basta vedere per capire.

Nella biblioteca di Antonio Faeti per “Continuare il racconto”

In uno dei passaggi più belli di questo film che si vorrebbe infinito come la biblioteca che ne è protagonista, Antonio Faeti racconta di aver visto I 400 colpi nella sua prima settimana da insegnante delle elementari: una visione che anticipa quello che osserverà nei suoi anni di scuola e che diventa simbolo di un modo di intendere la sua professione, con il senso di indeterminatezza finale su quelle note che Faeti ricorda ancora e che si mette a canticchiare davanti alla macchina da presa.

“Una claustrocinefilia” e l’amore (per il cinema) ai tempi del Covid

L’opera prima del critico Alessandro Aniballi si presenta come una stratificazione sinergica di diversi contenuti e approcci, decodificabile nelle sue singole componenti solo a costo di snaturarne l’organicità e l’efficacia espressiva. Una claustrocinefilia è certamente un documentario metacritico finemente strutturato, ma prima di tutto una sofferta storia d’amore a senso unico, fatta di disillusione e abbandono quanto di dipendenza e affiatamento, verso quell’oscuro oggetto del desiderio che è il cinema.

Decostruzione dell’uomo violento: “Il popolo delle donne” e “Io e il Secco”

Il tema della violenza di genere appare a più riprese nella rassegna di Visioni Italiane. Tra i vari titoli spiccano, per sensibilità e scelte registiche, Il popolo delle donne (Yuri Ancarani, 2023) e Io e il Secco (Gianluca Santoni, 2023), lungometraggi presenti in programma come eventi speciali. Sono entrambi film che meritano plauso per il trattamento del tema: la regia e le scelte di sceneggiatura lasciano spazio alla mente di comprende e al cuore di sobbalzare di fronte una realtà spaventosa.

“Misericordia” elogio della miseria

Dopo Le sorelle Macaluso del 2020 Emma Dante torna dietro la cinepresa, riportando su schermo una sua pièce teatrale. Da quella casa angusta del palermitano in cui vivevano le quattro sorelle, la regista apre il suo sguardo mantenendo però quella sensazione di claustrofobia che contraddistingueva l’opera precedente. Infatti le inquadrature sono studiate per togliere spazio al cielo, tendendo sempre verso il basso, verso le profondità del mare dalle quali le protagoniste non riusciranno mai a risalire.

“Ovosodo” e il ritorno del cult spensierato

Il successo di pubblico e critica quanto i riconoscimenti nazionali e internazionali parlano chiaro sulla popolarità di Ovosodo. Il terzo lungometraggio diretto interamente da Paolo Virzì si è guadagnato il titolo di film di culto anche perché invecchiato molto bene, sia dal punto di vista tecnico che per la persistente attualità del suo messaggio. In questa commedia generazionale e di (de)formazione si trovano già in nuce i temi e la cifra stilistica del Virzì che sarà.