“Persepolis” e la genesi del film
“Scrivendo i libri, ho dovuto ripercorrere sedici anni della mia vita, comprese le cose che avrei decisamente preferito dimenticare. È stato un processo molto doloroso. Avevo il terrore di cominciare a scrivere la sceneggiatura, e non avrei potuto farlo da sola. La parte più difficile è stata cominciare, e prendere le distanze dalla storia in prima persona. Abbiamo dovuto ripartire da zero per creare qualcosa di diverso, ma con lo stesso materiale” (Marjane Satrapi).
“Ancora un’estate” come decostruzione del desiderio femminile
In questo atto di ribellione, in questo sconfinare dell’istinto e della pulsione, Breillat anziché allargare il respiro del racconto e delle immagini, stringe ancor di più e lascia che siano i lunghi primi piani di Anne a comunicare l’estasi del piacere. Del resto, Ancora un’estate non è una storia d’amore, nemmeno d’amour fou: è un film su una donna che combatte (in primis contro sé stessa) per affermare il proprio posto, il proprio diritto alla libertà, il proprio corpo e il proprio desiderio.
“Un altro ferragosto” e l’incerto scenario umano
Forse per demarcare una differenza rispetto a tanta altra commedia italiana odierna da cassetta, Virzì filma il tutto con moltissima camera a mano, muovendosi da un gruppo di soggetti all’altro in piani sequenza coreografati, concedendosi il guizzo di alcuni montaggi interni per mettere l’accento su elementi di sfondo. L’effetto finale, però, più che autoriale, sconfina sorprendentemente verso territori mucciniani.
“Totem” e l’esistenza che pulsa
Lila Avilés riduce lo spazio filmico per farne la propria casa interiore, lo specchio uguale e difforme di un proprio interno topologico affettivo. E lo fa ponendosi a distanza ravvicinata dai soggetti coinvolti, scontornando i desideri celati sotto gli obblighi di un protocollo sacro e pagano. Sono frustrazioni e bisogni nati per essere disattesi dall’ineluttabilità degli eventi, ma che svelano tutte le umane contraddizioni di questa sospensione schiacciante.
“Sull’Adamant” tra sguardo e soggetto
Philibert non cede mai al sentimentalismo né a una rappresentazione drammatica della malattia mentale, ma se questo è sicuramente un requisito indispensabile per garantire al documentario la sua riuscita, allo stesso tempo non si percepisce mai un coinvolgimento emotivo che permetta all’intero lavoro di sembrare qualcosa di più di un reportage su un atelier artistico d’avanguardia, di cui vengono presentati i laboratori e i loro partecipanti.
“Drive-Away Dolls” Speciale II – B Movie a tinte queer
Drive-Away Dolls è il primo film di finzione di Ethan Coen senza il fratello Joel e mostra chiaramente come il suo apporto decisivo alla loro filmografia fosse soprattutto la tensione ironica, elemento imprescindibile di tutta la loro opera. Non a caso il primo film da solista di Joel, Macbeth, ne è completamente privo, modellato da un rigore formale estremo e a tratti legnoso. Nella separazione fisica dei due fratelli c’è anche una scissione estetica che rivela come le loro tematiche siano complementari e necessitino l’uno dell’altra.
“Drive-Away Dolls” Speciale I – Divertissement in salsa pulp
Opera tautologica di fatto e irriverente, ma solo nelle intenzioni, Drive-Away Dolls, ambientato nel periodo più crepuscolare dell’american dream, ha i toni della commedia grottesca e l’impeto caricaturale di Arizona Junior, ma la critica sociale si tramuta in un vaudeville trash che depotenzia la satira; non è così facile quindi sabotare il debordante immaginario conservatore a stelle e strisce come era avvenuto con Il grande Lebowski.
“American Fiction” e il cliché della satira sugli stereotipi
Un film in apparenza dissacrante, in realtà perfettamente in linea con il riscoperto spirito progressista di Hollywood che, dettato dalle nuove prospettive sociali e culturali inerenti l’annosa questione etnica americana, finisce spesso per auto-incensarsi con pellicole superficialmente innovative che invece ribadiscono ruoli e gerarchie sociali consolidati nel tempo e nella storia nazionale (come 12 anni schiavo o Green Book, solo per ricordare gli eclatanti casi più recenti).
“Caracas” nel rimpianto di una Napoli confusa
D’Amore ricerca in maniera quasi ossessiva una risposta emotiva dello spettatore. Dimostra un buon occhio registico e una mano piuttosto sicura, con l’eredità della serie Gomorra che lo spinge a un approccio visivamente ricercato e di ambizione internazionale, come già ne L’immortale. Il suo stile narrativo è però qui infarcito di troppi punti esclamativi e, per quanto si tratti di un registro omogeneo alla contemporaneità, ciò non giova all’evidente ricerca di una singolarità autoriale.
“La sala professori” sull’orlo del precipizio scolastico
La sala professori (Das Lehrerzimmer) di Ilker Çatak, presentato in concorso nella sezione Panorama della Berlinale 2023 e candidato agli Oscar come Miglior film internazionale, è un film che si sviluppa come un giallo ambientato tra le mura scolastiche, il cui obiettivo non è però quello di risolvere un caso ma di usarlo come pretesto per mettere in scena una rappresentazione intensa e sfaccettata del sistema educativo tedesco e delle sue contraddizioni.
“Dune – Parte 2” Speciale IV – L’immaginario del blockbuster
La mitologia dell’opera seminale di Herbert rimane pertanto un laboratorio in cui fondere linguaggi poco affini, nel tentativo di sintetizzarli in un ibrido irriconoscibile. Una spedizione alla ricerca del blockbuster dei nuovi anni Venti, tra sensibilità autoriale e gusto del pubblico, tra complessità e accessibilità, seguendo un concetto personale di bellezza al fine di ampliarlo e renderlo qualcosa di condiviso e universalmente apprezzabile.
“Dune – Parte 2” Speciale III – Sulla resistenza e il potere
Se infatti la figura del white messiah rappresenta quasi una forma di controllo esercitata dalla classe dominante sulla rivolta a un sistema che lei stessa ha creato, inglobandola e rendendola innocua, Paul usa invece la sua provenienza privilegiata per scatenare la rabbia degli oppressi, liberarli, scardinare il sistema di potere in cui è nato e instaurare il proprio. In Dune, insomma, il white messiah smette di essere un vuoto archetipo post-coloniale e diventa un’altra incarnazione del potere dominante, che però rifiuta di farsi inglobare.
“Dune – Parte due” Speciale II – Il simbolo del cinema contemporaneo
Dune – Parte due è un film che si rivolge ad una platea potenzialmente ampia: i conflitti più evidenti, il ricorso frequente a strutture melodrammatiche e una dimensione seriale meno aperta fanno di questa pellicola un racconto più accessibile, più compatto e, in fin dei conti, più piacevole. Tuttavia, la visione estetica che filtra ogni elemento del film fa sì che Dune – Parte due segua una direzione autoriale precisa per tutta la sua durata, ponendosi effettivamente come un blockbuster diverso.
“Dune – Parte due” Speciale I – Il pessimismo spettacolare
Le prime due parti di Dune sono caratterizzate da una disillusione pirotecnica, un pessimismo spettacolare che unisce gli effetti speciali da blockbuster ad un aura contemplativa e riflessiva aleggiante su un mondo allo sbaraglio. In tal senso il deserto di Arrakis, che potrebbe essere il nostro pianeta in un futuro sempre più prossimo, è uno spazio psichico, un teatro inconscio in cui possono trovare manifestazione ansie e angosce di un presente svuotato di prospettive e speranze.
“Estranei” e la dolcezza come stile
Estranei, sotto gli ingenti strati di inquietudine e amarezza, è la paradossale storia di un ritorno alla vita, condotta con la discrezione e la raffinatezza altrettanto individuabili in ulteriori pellicole recenti, come Past Lives e Aftersun. L’ultima tessera, finemente modellata, di un denso, arricchente mosaico che ci invita a coltivare la gentilezza, a non ritenerla, liquidandola superficialmente, un difetto o una debolezza. Adottando la dolcezza come cifra stilistica.
“Persepolis” e la critica
In occasione della distribuzione di Persepolis in versione 4K per il progetto Cinema Ritrovato al Cinema, offriamo una breve antologia critica dedicata al capolavoro di Marjane Satrapi. Un film che è “il viaggio magico e commovente di una ragazza alla scoperta di se stessa, della propria voglia di restare integra e coerente, e insieme l’esperienza (da parte dello spettatore) di un modo di rappresentare e raccontare la realtà lontano dalla verosimiglianza troppo invadente di oggi e vicinissimo alla poesia e alla vera arte”.
“Volare” indecisi tra autobiografismo e commedia
Buy ha dichiarato di aver girato Volare sentendosi Carlo Verdone su una spalla, e Nanni Moretti sull’altra (vista la scena dello spot pubblicitario di Daniele Luchetti in Aprile, parrebbe sulla carta un vissuto alquanto ansiogeno). Di fatto, non riesce a trovare la vera quadra fra autobiografismo e commedia, non concedendo abbastanza del proprio lato confessionale al primo, e non curando a sufficienza l’induzione alla risata per una piena riuscita della seconda – con le battute più azzeccate già presenti nel trailer, come troppo spesso accade.
“L’Empire” di Dumont, poema eroicomico per immagini
Più che meritato Orso d’argento alla Berlinale, L’Empire è un oggetto filmico non identificabile. Come in anni recenti hanno fatto The Grandmaster di Wong Kar-wai per le arti marziali o La ballata di Buster Scruggs dei Coen col western, si tratta di un film che, sfondando allegramente le distinzioni tra i generi e le regole dell’industria, insieme alle aspettative della critica e le abitudini del pubblico, scombina tanto l’esperienza cinematografica contemporanea quanto ogni legittimità della sua interpretazione.
Lo specchio scuro nel cinema di Saverio Costanzo
Il cinema di Saverio Costanzo è uno specchio scuro, un riverbero di recondite paure e desideri, un’illuminazione di volti in perturbante/trepidante attesa. I titoli delle sue opere sembrano enunciazioni programmatiche che esprimono introverse e cupe riflessioni non più procrastinabili e mai condivisibili. I protagonisti di queste storie hanno sete di un’innocenza perduta che si tramuta in immaginifica ossessione foriera di un’inquieta e perenne disillusione.
“La zona d’interesse” speciale IV – La posizione dell’osservatore
L’ultimo film di Jonathan Glazer è davvero una riflessione sull’etica dello sguardo? Le immagini vivono di quella che Michele Guerra, parlando proprio delle immagini della Shoah, chiamava pressione del fuoricampo? Forse sì, ma proviamo qui a cambiare il punto. Forse questo film ha meno a che fare con lo sguardo e più con il concetto di posizionamento. Forse non si pone la questione di cosa e come guardare, ma di cosa e come posizionare. Più che un’osservazione, La zona d’interesse sembra un rilievo topografico.
“La zona d’interesse” speciale III – L’attualità di Auschwitz
Glazer parte dal libro di Amis per darne una sua rilettura personalissima mantenendosi sì fedele ai temi di fondo, ma scarnificandoli, distaccandosi da vicende e protagonisti per concentrarsi da un lato sull’indicibilità e quindi anche sulla non rappresentabilità per immagini dell’orrore della Shoah, e dall’altro sulla figura di Rudolf Höss, che perde la connotazione grottesca e ridicola del romanzo per dar vita sullo schermo a “uno dei massimi criminali mai esistiti”, come lo ha definito Primo Levi e come emerge dall’autobiografia dello stesso Höss.