“Quei bravi ragazzi” e il lato umano del crimine
Quando uscì fu un’opera che si poneva al di fuori degli stilemi tipici del genere. Quei bravi ragazzi in qualche modo segna e modifica il modo di fare il cinema gangster. Molto di quel che è venuto dopo è stato influenzato dai goodfellas di Scorsese, tra tutte la dichiarata ispirazione che spinge David Chase, showrunner de I Soprano a pensare una intera serie televisiva a partire da questa rappresentazione della criminalità organizzata.
“Roxy” e la mania del controllo
Il film è la storia di un uomo ossessivo-compulsivo che, imparando il cinismo e la tenerezza da chi lo circonda, arriva a estendere sulla vita di una famiglia in pericolo le manie di controllo che già esercita dentro e fuori casa: durante i titoli di testa una serie dettagli ce lo mostra mentre regola meticolosamente il traffico di una ferrovia in miniatura; nel suo appartamento ogni oggetto ha un posto preciso; nel bar la macchina da presa segue i gesti del tassista quando non resiste a pulire un ripiano appena appena sporco.
“Armageddon Time” famigliare e politico
Gli anni Ottanta che Gray mette in scena non hanno niente delle colorate e nostalgiche ricostruzioni pop che popolano tanti piccoli e grandi schermi degli ultimi anni: i sobborghi della Grande Mela dove si muove il protagonista sono spenti, le case anguste, le scuole pubbliche fatiscenti e abbandonate dai finanziamenti statali, le metro una replica meno metafisica e assai più concreta di quelle dei Guerrieri della notte. Ovunque si avverte una tensione sociale e razziale figlia di quegli anni difficili (seppur cotonati e avvolti dalla disco music) a un passo dall’elezione a presidente di Ronald Reagan, che non avrebbe certo migliorato le cose.
Speciale “The Whale” II – Tra solitudini e moltitudini
The Whale ci racconta così tante emozioni, talmente prossime alle nostre vite, che qualcuno potrebbe pensare si tratti di un tranello, di un’abile manipolazione che indirizzi agilmente questo film verso un premio, un riconoscimento. Ma non c’è niente di facile e immediato in The Whale, un gioiello di scrittura piccolo come gli spazi che presenta e grande come il protagonista, anzi, i personaggi tutti. Una storia complessa fatta di solitudini e moltitudini, costrette a far stare le loro strabordanti emozioni in confini autoinflitti e pronte a esplodere in una tensione oscura che nasconde una speranza irriducibile.
“Manodrome” a Berlino 2023
C’era una volta Taxi Driver. Tornato a Berlino dopo il suo esordio con Wound (2017), John Trengove dialoga con Scorsese cercando di mettere in scena la crisi del superomismo maschilista attraverso la vicenda dell’Uber driver Ralphie e della setta del Manodrome. L’idea nasce dal viaggio del regista sudafricano nella Manosphere, ovvero l’insieme di siti e comunità online che professano ideologie maschiliste e misogine. Partito dal libro Kill all Normies di Angela Nagle, Trengove ha esplorato questo universo inquietante.
“She Came to Me” a Berlino 2023
La Berlinale 2023 si è aperta con l’ultimo film di Rebecca Miller, una commedia romantica sospesa fra la screwball comedy e Romeo e Giulietta, che funziona nei suoi meccanismi ma si perde cercando di abbracciare i problemi sociali e generazionali dell’America contemporanea. Temi importanti, forse non solo per il pubblico statunitense, che alla fine sembrano più che altro espedienti narrativi, immersi in uno sguardo scalato dall’alto.
“Tár” e la lezione del potere
Todd Field, che ritorna dopo 16 anni dietro la macchina da presa, lo fa con eleganza e maestria con un film stratificato che parla di potere, passando dai diritti femminili ed eguaglianza fino al mondo del lavoro e fino a che punto si è disposti a intercedere a compromessi per esso. Senza mai perdere il ritmo sembra aver acquisito anche lui la lezione del maestro Leonard Bernstein: “Giocare con il tempo e con la forma per trovare una propria voce”.
“Gli spiriti dell’isola” speciale II – L’umanità che annega
Come in un sacco dell’immondizia quando si cerca qualcosa di importante che si è buttato per sbaglio, il Martin McDonagh di Gli spiriti dell’isola affonda le dita nelle viscere dell’essere umano e le rimesta a fondo senza misericordia. Il quarto lungometraggio scritto e diretto dall’autore fa dei luoghi e della comunità di uomini e bestie che li abita frattaglie da interpretare per divinazioni sul futuro un po’ di tutte le terre, quelle da cui e quelle per cui si salpa. E non è in vena di buoni auspici.
“Gli spiriti dell’isola” speciale I – Il piacere del racconto
Con Gli spiriti dell’isola McDonagh torna a raccontare la solitudine, a portarla in scena come solo lui è in grado di fare oggi, con delle sottili quanto incisive sferzate diegetiche che partono dai particolari per dipingere un mondo di ammaliante nitidezza. Il soffocante senso di isolamento che domina il comparto emotivo viene lentamente instillato attraverso un parsimonioso utilizzo dei dialoghi, i quali molto spesso cedono qui il passo a silenzi gelidi, colmati solamente dai suoni dell’isola.
“Ludwig” 50 anni fa. Il biopic tra vita, storia e politica
Come Ludwig personaggio rifiuta di essere deposto e vuole decidere per la sua vita, Ludwig il film afferma la sua vitalità artistica. Lo scambio tra vita e film non si conclude qui, e il biopic non è semplicemente su Ludwig ma su Visconti stesso: nella sua identificazione con Ludwig, nobile omosessuale con interessi artistici, ma anche nella sua condivisione di alcuni tratti degli altri personaggi e nell’utilizzo di attori e attrici come Berger, Schneider, Orsini, Mangano, Griem e Asti appartenenti alla sua cerchia.
“Le vele scarlatte” nel cuore magico della semplicità
Con l’ausilio del fedelissimo Maurizio Braucci e di Maud Ameline, Pietro Marcello scrive e dirige il suo primo film francese affidandosi alla forza delle suggestioni, utilizzando l’ambiente, le luci, i colori e i suoni come veri e propri attori. Un’opera che trova nella sua semplicità la vera magia, svelando progressivamente un inedito punto di vista femminile. Di fatto, Le vele scarlatte è solo all’apparenza limpido e immediato, ma nasconde sotto la delicatezza delle immagini un sistema simbolico profondo.
“The Fabelmans” Speciale III – Dove vince la leggenda
Il cinema dimostra qui la sua duplice natura. Da una parte svela quello che l’occhio umano non vede, che la mente relega ai sogni che non si vogliono interpretare (d’altronde, come dice il piccolo Sammy quando per convincerlo a entrare in sala gli viene detto che il cinema è un sogno, “i sogni fanno paura”). E dall’altra crea una realtà alternativa, dove tutto va come deve andare, dove si possono tagliare al montaggio le parti scomode e sbagliate, gettandole nel cestino. Tra verità e leggenda, nel cinema, vince la leggenda. Nel cinema di Spielberg sicuramente, e per noi va benissimo così.
“Chiara” piena d’amore con tutti i suoi difetti
Non sarà un film perfetto, ma è indubbio che Chiara sia un film pieno d’amore. Amore per la storia che racconta, amore per la protagonista e per le sue motivazioni, amore per la terra e per il tempo in cui si svolge. Amore per il grande cinema italiano di costume e religioso (Rossellini e Pasolini su tutti, “oltraggiati” e omaggiati), amore per tutto ciò che possa recidere i legami con quello stesso cinema. Amore per tutto ciò che non è stato raccontato. Amore per le potenzialità del cinema. Un amore che finisce per sovrastare il film stesso, ingessato in una ricercata naturalezza, ma che si fa portavoce di una adorabile fragilità.
“Saint Omer” e la disperata ricerca di un senso
Affidandosi principalmente a primi piani in camera fissa, in cui le parti coinvolte nel processo esprimono la propria parziale versione dei fatti, Saint Omer pare dapprima adoperarsi per un annullamento dell’empatia che lentamente si trasforma in sguardo onnicomprensivo. Una visione che si rivela affatto fredda e distante, ma consapevole della propria inadeguatezza e quindi alla disperata ricerca di un senso, di una chiave di lettura che possa concedere una forma al caos cui sta assistendo. E il volto di Rama è la tela su cui viene dipinto questo inconsueto legame empatico.
Riprendere la parola. “Les Années Super8” e la scrittura di Annie Ernaux
Alle immagini delle feste di famiglia, dei compleanni, delle visite ai suoceri e alla sorella ribelle si alternano le riprese fatte durante i viaggi in Francia e all’estero. Costantemente il récit di Ernaux mette in relazione questi fatti privati con gli avvenimenti storico-politici. Il viaggio in Cile del 1972 è l’occasione per documentare le speranze di un popolo per il governo Allende: quelle girate “sono immagini di un paese che non esiste più”. La pubblicazione del primo romanzo, Gli armadi vuoti (1974), corrisponde alla morte di Pompidou, all’elezione di Giscard e agli attacchi dei conservatori contro Simone Weil per le sue posizioni a favore dell’aborto.
“Rumore bianco” e lo spettacolo della morte
Baumbach mette in moto la “macchina spettacolare” del suo cinema per la prima volta, celebrando quel paradosso dell’esibizione del disastro, decidendo di dare spazio all’azione come mai gli era capitato di fare. Tra esplosioni e inseguimenti costruisce il contrappunto tra uno e tutti, singolo e massa, privato e pubblico, dove la massa è esorcizzazione e il singolo è angoscia. Per un film però molto più interessato, come detto all’inizio, alla via di mezzo delle traiettorie private, familiari e sentimentali, anche in termini di protagonismo e voce narrante.
“The United States of America” e l’America come sineddoche
C’è già stato un The United States of America nella filmografia di James Benning – tra i più radicali registi del cosiddetto slow cinema – era un corto del 1975 girato insieme alla moglie in cui, tramite una cinepresa montata nei sedili posteriori della loro automobile, riprendeva estratti di paesaggi americani incontrati nel loro viaggio da una costa all’altra. Tra quel corto e oggi c’è stata la rivoluzione digitale che ha stravolto il suo modo di concepire il cinema, ma l’inclinazione al road movie non è svanita. Oggi James Benning torna a quel titolo con un nuovo lungometraggio, presentato a Berlino e in concorso all’ultima edizione di Filmmaker a Milano
“Bones and All” e l’America fagocitata
Bones and All, come immaginabile, è un film che parla dell’affrontare la propria natura, combatterla, accettarla, contrattarla e interpretarla eticamente. Maren lo fa confrontandosi con diverse personalità: anziani che ritualizzano il processo, adulti che si “autocannibalizzano” e giovani che procedono con un’etica personalissima ma non sempre stabile. Tanto da poter affermare che la differenza generazionale, secondo Bones and All, è anche e soprattutto qualcosa che ha a che fare con l’etica e la morale.
“Argentina 1985” e la linearità della giustizia
Al centro del film il personaggio di Strassera, interpretato dell’intenso Ricardo Darín, uno degli attori più noti del cinema argentino contemporaneo (e protagonista, tra le tante pellicole, di Il segreto dei suoi occhi, premio Oscar 2010 come miglior film straniero). Mitre insegue una minuziosa ricostruzione storica che realizza attraverso una scenografia e una sceneggiatura molto accurate ma anche attraverso la ricerca della somiglianza fisica degli attori ai personaggi reali, quasi a voler catturare nel modo più fedele possibile oltre che lo spirito del tempo anche la sua immagine (in alcune sequenze sovrappone direttamente alcune fotografie del processo alle immagini del film).
“Infinito: l’Universo di Luigi Ghirri” e l’enigma del paesaggio
Infinito fu un progetto fotografico di Luigi Ghirri del 1974. Il lavoro consisteva in 365 fotografie di cieli diurni, una per ogni giorno dell’anno. Cosa spingeva un artista a fissare il cielo tutti i giorni per un anno? Non certo follia, piuttosto alcuni pensieri, sull’arte, la fotografia, la vita, la società contemporanea. Parte da questi pensieri, Matteo Parisini per riscoprire la figura del fotografo emiliano. Prodotto in collaborazione con Sky Arte HD e Rai Cultura, Infinito: l’Universo di Luigi Ghirri fa rivivere, attraverso la voce di Stefano Accorsi, la parola dell’autore cercando di evidenziare il legame tra opera e pensiero.
“La California” tra la via Emilia e il West
L’invito del grande Pier Vittorio Tondelli nel racconto “Viaggio” (Altri Libertini, 1980) a farsi riempire la testa di storie risuona chiaro nel nuovo film di Cinzia Bomoll, ambientato in quella stessa provincia emiliana sulle cui strade lo scrittore “spolmonava” quello che aveva dentro e raccontava i molteplici itinerari esistenziali che incrociava. La California intreccia le storie degli abitanti della frazione/finzione emiliana con la narrazione di formazione di Ester e Alice, sorelle gemelle, figlie di Yuri, un padre punk eterno adolescente che alleva maiali, e di Palmira, una madre irrimediabilmente depressa e disorientata dalla fine del comunismo.