“All We Imagine as Light” in egual misura tra desiderio e solitudine

All We Imagine as Light, secondo film della regista Payal Kapadia, è una delle migliori pellicole dell’anno. Nonché una delle più originali degli ultimi anni, premiata meritatamente con il Grand Prix Speciale all’ultimo Festival: è una storia universale che mette al centro della sua indagine in egual maniera il desiderio e la solitudine, attraverso la parabola di tre donne che, messe da parte le relative differenze, stringono un’alleanza che va al di là della parola “amicizia”.

“Vittoria” nella storia finta di una vita vera

Cassigoli e Kauffman filmano tutto come se fossimo in un documentario, pedinando i personaggi con camera a mano traballante quando sono in movimento, e passando dall’uno all’altro con messe a fuoco incerte durante i dialoghi. E se la convergenza fra documentario e fiction è una caratteristica precipua dei nostri anni, Vittoria ha un sapore ancor più marcato da “storia finta eppure totalmente vera”, con attori che portano in scena un re-enactment di snodi fondamentali della propria vita.

“Familia” tra sacrificio e castigo

Quella di Familia non è di certo una storia nuova o mai vista; tuttavia, è una storia, ahinoi, ancora molto radicata nella realtà e quindi ancora necessaria. Costabile mette lo spettatore di fronte alla distruzione, fisica ed emotiva, a cui la violenza domestica può condurre, oltre che alle conseguenze devastanti e ai danni irreparabili che tale persecuzione può provocare come in un tunnel in fondo al quale non si vede mai la luce.

Speciale “Joker – Folie à Deux” – Poetica del sabotaggio

Se Joker assassinava il cinecomic nell’anno della sua massima e irreplicabile espressione (2019), Joker: Folie à deux è la sua diretta implosione. Un (auto)sabotaggio, l’uccisione felice (non autocompiaciuta) del successo del suo archetipo. Un film lento, a tratti soffocante, pronto a sigillare tutte le vie d’uscita possibili, che non appena accenna a dispiegarsi trova il modo di accartocciarsi su se stesso.

Speciale “Joker – Folie à Deux” – Temerario ma goffo

La strada del musical suggeriva una certa temerarietà nell’intenzione di proseguire un progetto che con il film del 2019 sembrava avere già raggiunto il suo culmine. La virata verso un genere che inevitabilmente avrebbe portato con sé un elemento anomalo apriva a una serie di intriganti possibilità espressive. Eppure la dimensione spettacolare del musical resta perennemente isolata da tutto il resto e le esibizioni canore vengono relegate ad intermezzi avulsi da una struttura che fatica terribilmente nel trovare la spinta propulsiva agognata.

“Bestiari, Erbari, Lapidari” e il catalogo come comprensione umana

Bestiari, Erbari, Lapidari è un film che si pone da subito come un elenco: un titolo che è già un indice, un film che è già consapevolmente un catalogo. Massimo D’Anolfi e Martina Parenti sanno che si può partire solo con delle distinzioni precise. Se nel loro precedente Guerra e pace l’indice era temporale (passato remoto, passato prossimo, presente e futuro) qui è tipologico: Bestiari, Erbari, Lapidari. Una tautologia. Tre soggetti che rimandano a tre sfere, tre universi, tre dimensioni precise… universali, ma specifiche: animali, vegetali e minerali.

“Il tempo che ci vuole” e il ritratto amorevole del padre

I ricordi e le esperienze personali, prima di farsi prodotto artistico, hanno spesso bisogno di un lungo arco temporale per fermentare e trovare le parole e le immagini giuste per farsi racconto e storia universali. È quello che è accaduto a Francesca Comencini nella realizzazione di un film che è un atto d’amore verso il proprio padre. Infatti, oltre alla regia elegante e ordinata, a investire lo spettatore è una emozionalità potente che scaturisce da un sentimento profondo per una figura paterna caratterizzata dalla gentilezza e dalla bontà. 

“Wolfs” e il potere dell’alchimia

Vecchie glorie dei bei tempi andati? No, solamente vecchi. In tal senso, l’omaggio ai corpi di Clooney e Pitt è forse quanto di più semplice, elementare e sbagliato ci sia all’interno del film (siamo ancora fermi ai dolori alla schiena o agli occhiali da vista per proporre l’autoironia incentrata sulla decadenza fisica?), ma proprio per questo riuscito, poiché in grado di mostrare il fianco alla componente più umana e genuina che Watts vuole esaltare.

“La bambina segreta” e lo spazio minato del mondo

È il regista-demiurgo a mettere in moto il meccanismo di inezie, a minare il set in cui si muovono gli attori, a disegnare l’apice della parabola drammaturgica nel confronto con il volto logoro del potere. A differenza però del successivo film del regista, Kafka a Teheran, il confronto si presenta non come un momento di liberazione, ma piuttosto come momento preparatorio. Se liberazione deve esserci, essa deve passare attraverso una presa di responsabilità personale.

“Linda e il pollo” senza graffi ma con spasso

I registi, il francese Sébastien Laudenbach e l’italiana Chiara Malta, raccontano con allegra esaltazione di una leggiadra uscita dalle norme, e del calore dei legami di quartiere fra palazzoni di periferia. Lo fanno con ampi e sparsi tratti, e definendo tutto mirabilmente col colore (Linda è interamente gialla, la madre arancione, e così via tutti i personaggi), quasi stessimo vedendo i disegni d’infanzia di Henri Matisse. 

“Love Lies Bleeding” speciale II – La violenza e l’estasi dell’amore “oltreumano”

Love Lies Bleeding è un titolo emblematico della sensuale corporeità e della sanguinosa (e sulfurea) violenza che intride la saffica relazione tra Lou e Jackie, ottenebrata dalla mefistofelica presenza di Lou Sr.., che le perseguita senza esclusione di colpi (di scena). Questo rapporto triangolare riecheggia Satan Watching the Caresses of Adam and Eve, una nota opera di Blake che illustra un episodio tratto da Paradise Lost, epico poema di John Milton. 

“Love Lies Bleeding” speciale I – Incubi della provincia americana

Sono fantasmi dell’inconscio individuali e prodromi di uno sradicamento sociale quelli raccontati da Rose Glass in Saint Maud e Love Lies Bleeding, finora i due unici film di un’autrice decisamente sui generis. Perché, in effetti, ciò che la regista fa affiorare sullo schermo, aderisce a una precisa scelta stilistica e a una poetica ben definita: l’allucinazione mistica o l’incubo lisergico, rispettivamente di una scomunicata e di due emarginate all’interno di contesti retrivi e corrotti.

Chiamate Beetlejuice e arriva Tim Burton

I trucchi del mestiere si mettono al servizio di un esorcismo su più livelli, una parata di freak — ognuno con un sensibile carico di solitudine e risentimento — e creature che danzano tra la vita e la morte nel tentativo di valorizzare l’eredità del trauma. Esattamente quel che fa Tim Burton con il suo, irrimediabilmente suo, Beetlejuice Beetlejuice: prendere in corsa il Soul Train per riscattare la propria anima.

“La sindrome degli amori passati” e dell’arguzia compiaciuta

La sindrome degli amori passati funziona a sufficienza se preso come semplice divertissement che intrattiene portando lievemente fuori asse lo status quo, ma come critica sociale che pretende di portare riflessioni – nemmeno tanto innovative, in verità – sulla coppia etero contemporanea lascia attorno a sé quel lieve imbarazzo di chi si sforza troppo di sembrare arguto e fuori dagli schemi.

“Limonov” dalla vita insoddisfatta e capricciosa

Serebrennikov riporta la versione romanzata delle ascese e delle cadute di Eduard Limonov, personaggio controverso e indecifrabile che ha vissute mille vite diverse: dall’infanzia e adolescenza di povertà e delinquenza all’ascesa sociale come giovane poeta cullato dalla società underground sovietica, fino alla permanenza a New York fatta di sesso, stupefacenti e ancora sesso e che fa da spugna che cancellerà tutto che è venuto prima, tranne la sete di riscatto di Eduard detto Eddie.

“Campo di battaglia” nel corpo dei feriti

Campo di battaglia si ispira al romanzo La sfida (2020) di C. Patriarca, ma deve, forse, il titolo a un lavoro precedente dello stesso scrittore: Il campo di battaglia è il cuore degli uomini (2013). Ed è al cuore degli uomini che Amelio colpisce con la sua opera, filmando con delicatezza e sobrietà la brutalità della guerra e la ricerca, disperata, di umanità: una riflessione sempre attuale e potente, resa con uno stile classico ma efficace.

“MaXXXine” come diritto al godimento

Si sente affermare troppo spesso che West è un citazionista pop che scherza con il cinema del passato, ma se questa definizione potrebbe in parte andare bene per il suo collega Eli Roth non si addice decisamente a lui, inquanto dietro allo spudorato velo del facile giochino cinefilo si nascondono riflessioni molto più pregnanti, come ad esempio il concetto di ridisegnare e risignificare il corpo femminile all’interno del cinema contemporaneo, filtrandolo attraverso l’estetica vintage.

“Beetlejuice Beetlejuice” e lo spiraglio di libertà di Tim Burton

Consapevole che il mondo sia cambiato, così come lo sguardo degli spettatori, Burton cerca il proprio spiraglio di libertà tornando alle origini e rispolverando il proprio amore verso la sgangherata tenerezza che si cela nella mostruosità. Le scenografie distorte dal gusto squisitamente espressionista, le incalzanti musiche del fedelissimo Danny Elfman, il grottesco come chiave per il sovvertimento degli equilibri del mondo e strumento di rivalsa per gli emarginati.

“La vita accanto” e la macchia della famiglia

La macchia di Rebecca, metafora di una sorta di indicibile colpa che grava sulla famiglia è l’espediente narrativo per sviluppare i tanti, forse troppi temi affrontanti nel film quali la claustrofobia della provincia bigotta, il disagio psichico legato alla maternità, la paura della diversità, la forza salvifica dei legami autentici e delle passioni che riabilitano l’umano a una vita degna di essere vissuta. Uno dei meriti del film di Giordana è di smascherare sin da subito la mistica della femminilità che vuole la donna naturalmente e obbligatoriamente madre (e moglie) felice.

‘‘L’innocenza’’ speciale II – Il potere rivoluzionario degli affetti

Kore’eda dimostra ancora la propria capacità di elevare in modo non banale i sentimenti al di sopra delle aspettative sociali che vorrebbero disciplinarli, liberandone così un potenziale rivoluzionario. La cornice scolastica incarna un’autorità da mettere in discussione, gli schemi entro cui ci disponiamo sono ancora una volta ostacolo alla vera comprensione dell’esistenza e insufficienti a spiegare una realtà che appare spesso contraddittoria e inafferrabile

“L’innocenza” speciale I – L’innocenza scoperta nel cinema scrigno

Il titolo originale, Mostro, contribuisce più dell’italiano L’innocenza, quasi opposto, a (dis)orientare chi si accinge ad aprire la scatola dell’ultimo film di Hirokazu Kore’eda. Affezionato lui a un cinema di manipolazione empatica del pubblico, e grati noi per i limpidi inganni che tesse a nostro beneficio, il titolo come porta d’accesso al film ne prelude minacciose atmosfere horror, che lo stile riprova, avvincente e inquietante.