Lo specchio scuro nel cinema di Saverio Costanzo
Il cinema di Saverio Costanzo è uno specchio scuro, un riverbero di recondite paure e desideri, un’illuminazione di volti in perturbante/trepidante attesa. I titoli delle sue opere sembrano enunciazioni programmatiche che esprimono introverse e cupe riflessioni non più procrastinabili e mai condivisibili. I protagonisti di queste storie hanno sete di un’innocenza perduta che si tramuta in immaginifica ossessione foriera di un’inquieta e perenne disillusione.
“Suspiria” di Argento e l’estetica di Tovoli
Noto principalmente per le sue collaborazioni con Michelangelo Antonioni, Tovoli si trovò proprio con Suspiria ad avere a che fare per la prima volta con il genere horror. Ciò rappresentò una sfida non indifferente per un artista che mai aveva preso parte ad una produzione di questo tipo, ma d’altro canto si rivelò anche motivo di fascino per la gamma di possibilità che un genere fantastico poteva offrire dal punto di vista visivo.
In memoria di Sandra Milo
Sandra Milo ha avuto il coraggio di essere una donna diversa (o l’altra donna) in tempi in cui l’unico ruolo femminile ammissibile era quello di moglie e madre, di passare per sciocca, per poter dire ciò che voleva, di vendere (consapevolmente) l’immagine provocante del suo corpo, per incitare le donne ad una maggiore libertà nell’espressione libera e soggettiva della propria sessualità. “Ho vissuto come ho voluto, sempre. Sono fortunata perché non ho rimorsi né rimpianti”, ha detto poco tempo fa.
A proposito di Vigo, secondo Truffaut
Riprendiamo in esame alcune delle riflessioni di François Truffaut su questo cineasta divenuto oggetto di culto per cinefili e registi. “Ho avuto la fortuna di scoprire tutti i film di Jean Vigo in un’unica volta, un sabato pomeriggio del 1946, al Sèvres-Pathé grazie al cine-club La chambre noir animato da André Bazin. Entrando in sala ignoravo persino il nome di Jean Vigo, ma fui preso immediatamente da un’ammirazione sterminata per quest’opera che tutta insieme non raggiunge nemmeno i duecento minuti di proiezione”.
“Stranger Than Paradise” 40 anni dopo
L’occhio “malincomico” di Jarmusch de-territorializza luoghi e ambienti con un bianco e nero dalla luce abbacinante (splendida la fotografia iperrealista di Tom DiCillo) che rende “i posti un po’ tutti uguali” con un clima di glaciale umorismo e di poetico grigiore. Certamente affiorano influenze di quel surrealismo che il cinefilo ragazzo di Akron (Ohio) studiò a Parigi, affascinato dal pensiero di André Breton che affermava: “la letteratura è una delle strade più tristi che portano dappertutto.”
“Il cacciatore” e il cinema tra ragione e follia
Michael Cimino, come in altre occasioni durante la sua carriera, non ebbe vita facile durante la lavorazione de Il Cacciatore. Le difficoltà produttive furono varie, la ricerca delle location in Thailandia fu molto complessa, le condizioni climatiche a volte sfavorevoli rallentavano la lavorazione e ci fu un colpo di Stato durante le riprese, anche se questo non portò seri problemi in quanto il comitato rivoluzionario garantì la sicurezza della troupe. In aggiunta vi furono lotte tra la produzione e Cimino che, “come Penelope”, di notte reintegrava le parti mancanti.
Il cinema degli anni Ottanta o della realtà prima del multiverso
Con film come La storia infinita, Nightmare, Poltergeist e altri, pur nel solco di una tradizione narrativa che possiamo far risalire almeno al carrolliano Alice nel paese delle meraviglie, qualcosa è cambiato. Non si tratta solamente più di un sogno. All’altezza degli anni Ottanta quella che si dovrebbe chiamare realtà inizia a sgretolarsi, i confini del reale si fanno sempre più labili e incerti. Che sia una risposta all’evoluzione tecnologica della società, alla penetrazione dei media nella quotidianità, della progressiva e vertiginosa virtualizzazione dell’esperienza umana è tutto da dimostrare.
“Nightmare” 40 anni dopo
Nightmare non costruisce la sua tensione sui pur presenti jump scare ma sulla graduale alterazione delle regole basilari dello spazio-tempo ordinario, ovvero tramite la progressiva materializzazione del suddetto perturbante di freudiana memoria, che si applica non tanto alla figura del mostro/assassino quanto piuttosto alla terrificante interazione tra i sogni e la realtà. Wes Craven, nella sua genialità, gioca sul fondamentale bisogno che l’essere umano ha di dormire per renderlo vulnerabile alle aggressioni della sua creatura
Il meglio del 2023 secondo i redattori
Anche quest’anno – dopo aver pubblicato la classifica generale – offriamo i 5 film preferiti (in ordine alfabetico) dei nostri redattori. Si conferma la ricchezza dell’offerta cinematografica di questa stagione. In ogni caso, le preferenze espresse dai redattori di Cinefilia Ritrovata possono fungere anche da guida appassionata per una stagione cinematografica tutta da riscoprire anche nei prossimi tempi.
I migliori film del 2023
Vince un grande maestro della storia del cinema contemporaneo (Martin Scorsese) ma inseguito da una regista, Justine Triet, che in qualche modo conferma e rappresenta una stagione di registe in grado di scuotere il panorama (come appunto Cortellesi e Gerwig). Il genere fa capolino con Sorogoyen, il cinema d’autore e d’essai con Kaurismaki, mentre ben due film italiani in top 5 raccontano diverse generazioni di narratori (Rohrwacher davanti a Moretti).
“Bianca” doloroso e dolce
Bianca è per Moretti un film di cambiamento, di maturazione, di passaggio dalla costruzione completamente rapsodica dei primi film a una sceneggiatura maggiormente costruita e inserita nelle strutture di una sorta di ‘giallo’ morale. Ma Nanni non si normalizza e non si addomestica, anzi. Perché Bianca è anche il film in cui l’umorismo satirico del regista si carica di dolore e feroce rassegnazione, quello in cui Moretti scava di più nei lati oscuri del proprio personaggio
“Piccolo Buddha” e l’innocenza del cambiamento
Se Piccolo Buddha è un film dichiaratamente didattico, è anche il contraltare dell’approccio hollywoodiano verso le altre culture. Nel suo essere manifestamente ingenua, nella sua rinuncia a un certo tipo di sottotesto, la favola di Bertolucci è una scelta di campo. Più pasoliniana, sotto alcuni aspetti (anche estetici: molte location sono le stesse de Il fiore delle Mille e una notte), cerca nella consulenza di Dzongsar Jamyang Khyentse Rinpoché – il vero Lama Norbu, che dopo l’incontro con Bertolucci diventerà il primissimo regista buthanese – un’autenticità che smascheri i limiti di uno sguardo dualista.
Ryan O’Neal il duro non balla più
La carriera di Ryan O’Neal ha attraversato molte forme e diversi generi del panorama mediale contemporaneo. Dalla soap opera che lo ha fatto conoscere al grande pubblico televisivo degli anni ’60 all’inaspettato successo nel ruolo del ricco rampollo innamorato Oliver Barrett IV nel blockbuster strappalacrime per eccellenza degli anni ’70, dall’approdo ai film d’autore fino al debutto teatrale e al ritorno alla televisione negli anni 2000, O’Neal ha continuato ad essere, nell’arco di sessant’anni, uno dei volti più noti dell’industria cinematografica e televisiva americana.
“Funny Games” e l’ossessione del dolore
Funny Games, nonostante la televisione a tubo catodico e il telefono cellulare con antenna esterna, risulta estremamente contemporaneo nell’evidenziare il distacco emotivo che lo spettatore, saturo di crudeltà, prova nei confronti della sofferenza altrui che sembra, poiché trasmessa mediaticamente. È forse il caso di riprendere la discussione sul confine tra realtà e finzione che Paul e Peter intrattengono sul finale dell’opera di Haneke?
“Viaggio a Tokyo” 70 anni dopo
È un Paese, quello di Ozu, negli anni dell’occupazione americana. Un Paese che cambia e nel cambiare abbandona anche i suoi valori più autentici come il senso dell’accudimento, il ritmo lento della vita, il rispetto dei rituali. Il regista ne ha nostalgia, ne soffre; eppure, il suo cinema “gentile” – come lo definisce Kaurismäki – ha una narrazione che non contiene conflitti, non ci sono buoni e cattivi da una parte e dall’altra. Si fa fatica a non giudicare i personaggi di Ozu.
“La grande abbuffata” 50 anni fa
Quali sono le cause perturbanti del cinema di Marco Ferreri (un ex veterinario approdato al cinema con la sua coorte di animali, corpi e fisiologicità abbondanti)? Di sicuro ciò che crea disagio in questo film è la metafora nascosta dietro al cibo, poiché Ferreri usò il cibo in tutti i suoi film e massimamente ne La grande abbuffata, come mezzo per interpretare, criticare e demolire le sovrastrutture sociali. Oppure il fastidio nasce dal fatto che questa rappresentazione fu fatta in chiave più che grottesca, quasi scatologica?
Hollywood Chaplin
Inviato speciale della United Press, Henry Gris fu l’unico giornalista presente sul set durante gli ultimi giorni di riprese di Luci della ribalta, tra il gennaio e il febbraio del 1952. Oltre a conservare alcuni ritagli stampa tratti dal reportage di Gris, tra le carte del fondo Chaplin della Cineteca di Bologna figura l’articolo integrale, rimasto inedito per oltre settant’anni. La prima parte è stata pubblicata in italiano nel libretto di Limelight – Luci della ribalta, edito dalla Cineteca di Bologna a novembre. Qui pubblichiamo una parte ulteriore.
Un ricordo cinematografico di Shane MacGowan
Come approcciarsi a Shane MacGowan? Come tentare di raccontare la parabola celebrativa e distruttiva di chi si è fatto al contempo icona, stereotipo, tradizione e ribellione? Figlio del repubblicanesimo e della diaspora irlandese, Shane è una scheggia impazzita che trova a Londra, nel bel mezzo della rivoluzione musical-popolare del 1976, il motore poetico di una rabbia antica. Impossibile da moderare, anche sfruttando gli stratagemmi del mezzo filmico. Qualcuno l’ha già detto: “Shane’s gonna Shane.” E Julien Temple lo sa, lo sa molto bene.
“L’odore della notte” e del sangue secondo Claudio Caligari
Grazie a una regia che sa cosa vuole e a interpretazioni sanguigne e memorabili (attori all’epoca poco conosciuti, ma oggi tra i più rinomati in Italia), L’odore della notte è di un’intensità fisica ed emotiva pazzesca, ed è ricco anche di sequenze cult, come il sequestro in casa di Little Tony (nei panni di sé stesso) con Marco Giallini che lo obbliga a cantare Cuore matto, le suddette citazioni da Taxi Driver, e il dolente ferimento di Mastandrea, che si trascina a lungo nel suo sangue prima di svenire ed essere arrestato.
“Film Rosso” come il filo del caso e della necessità
Rouge. Fraternité. “La gente non è cattiva. Forse, qualche volta non ha la forza”. Lo sguardo limpido di Valentine, una modella sensibile e piena di vita, inciampa fortuitamente nella solitudine orgogliosa e superba di un vecchio giudice in pensione, Joseph, che trincerato nella sua abitazione, riempie i suoi vuoti intercettando le telefonate dei vicini. Rouge, rosso, come carica positiva ed energica, portatore di calore in un mondo in cui non è difficile essere rapiti dall’indifferenza e dall’apatia sociale.
“Il grande Lebowski” e la critica
Dude e i suoi compagni si confrontano sulla risposta appropriata all’aggressione e sulla definizione stessa di virilità. I Coen suggeriscono ripetutamente – in un modo che è diventato uno dei loro tratti distintivi, mascherando la sincerità con lo sberleffo – che Il grande Lebowski ruota intorno alla domanda “Che cosa fa di un uomo un uomo?” e che Dude è “l’uomo al posto giusto nel momento giusto” – un improbabile rappresentante della virilità e della virtù che si pone in netto contrasto, ma non può correggere, i valori corrotti della sua epoca (Marc Singer, dall’antologia critica).