“Le due sorelle” 50 anni fa
Nel 1973 De Palma girò Le due sorelle, thriller al femminile e horror psicologico che anticipa molti elementi tematici e alcuni stilemi del suo cinema immediatamente successivo: le morbosità familiari di Complesso di colpa, la paura della sessualità femminile in Carrie, lo split screen inimitabile di Blow Out, lo sdoppiamento patologico in Dressed to Kill, e ancora il dichiarato voyeurismo della soggettiva, i colpi di scena suggeriti dai giochi d’ombre e le ossessioni private di tanti suoi personaggi a venire.
“Armageddon Time” famigliare e politico
Gli anni Ottanta che Gray mette in scena non hanno niente delle colorate e nostalgiche ricostruzioni pop che popolano tanti piccoli e grandi schermi degli ultimi anni: i sobborghi della Grande Mela dove si muove il protagonista sono spenti, le case anguste, le scuole pubbliche fatiscenti e abbandonate dai finanziamenti statali, le metro una replica meno metafisica e assai più concreta di quelle dei Guerrieri della notte. Ovunque si avverte una tensione sociale e razziale figlia di quegli anni difficili (seppur cotonati e avvolti dalla disco music) a un passo dall’elezione a presidente di Ronald Reagan, che non avrebbe certo migliorato le cose.
“Le mura di Bergamo” oltre la generazione scomparsa
“Sussurri e grida” 50 anni fa
Bergman riesce a mettere a fuoco le dinamiche e i conflitti provenienti dai traumi del passato, celebrando un disperato cerimoniale femminile in uno spazio liminale tra la vita e la morte, organizzato secondo rapporti di simmetria assiologica: Agnes, la sorella in fin di vita, è come la sua devota domestica Anna, affamata d’amore umano e divino, mentre Karin e Maria appartengono alla schiera delle peccatrici senza Dio.
Chi è il colpevole? Note sul recente cinema italiano
È come se il cinema italiano, in film come Gigi la legge, Mixed by Erry, L’ultima notte di Amore non fosse in grado di guardare in faccia il colpevole. Lo tiene in disparte. Non sa chi è, anche se spesso sembra trovarlo nei piani alti, nei poteri segreti e impuniti. Atterrito in un oceano di complessità, sembra trovare una sua onestà nel racconto del colpevole minore. Riduce i fatti a questioni private (il confronto tra Milano e Amore è schiacciante) e personali (amore in Mixed by Erry e famiglia in L’ultima notte di Amore).
“La stangata” 50 anni fa
Nell’interstizio tra la crisi del cinema delle major e la svolta generazionale del pubblico si inserisce un film come La stangata (1973) di George Roy Hill, un fenomeno cinematografico che forte dell’appeal dei suoi protagonisti, Paul Newman e Robert Redford, segnala certe tendenze di una Hollywood nostalgica ma allo stesso tempo briosa, ancora oggi entusiasmante nel suo equilibrio tra innovazione e continuità con i linguaggi della tradizione.
“L’esorcista” 50 anni fa
L’esorcista può essere analizzato come un horror da camera in cui convivono stilemi classici del genere (la discesa dalle scale di Regan come un ragno, la camera spettrale in cui si consuma l’esorcismo), soluzioni vicine allo splatter “new horror” (la scena della masturbazione, i liquami emessi dall’indemoniata) e una tensione emotiva sotterranea che fa percepire nevrosi e traumi del quotidiano attraverso la metafora della possessione.
“Disco Boy” sans-papiers nell’universo dei corpi
Alla fine è tutta una questione di corpi Disco Boy, l’esordio nel lungometraggio di finzione di Giacomo Abbruzzese, premiato per la fotografia di Hélène Louvart all’ultimo festival di Berlino. Contributo fondamentale vista la natura del film, che fa della dimensione visiva il mezzo per raggiungere una stilizzazione che trasformi il particolare in universale, la storia personale in storia collettiva. Corpi, dunque. Senza patria, senza un posto nel mondo, come quello del protagonista.
“L’ultima notte di Amore” e la riscrittura del poliziesco
Dopo le produzioni e le ambientazioni internazionali di Escobar (2014) e The Informer – Tre secondi per sopravvivere (2019), con L’ultima notte di Amore Andrea Di Stefano continua la sua personale indagine nel poliziesco, muovendosi nel panorama italiano e manovrando abilmente ripetizione e innovazione di genere, dalla caratterizzazione dei personaggi ai nuclei dell’intreccio, commentati con sonorità che evocano Bacalov e Cipriani.
Gli Oscar 2023 e la diversificazione del gusto
Se per A24 Everything Everywhere All At Once è motivo di vanto per l’ottenimento del maggior numero di premi cinematografici da un film, nonché per gli importanti incassi registrati nella sua poco più che decennale storia, è comunque chiaro che ci si trova di fronte a un definitivo riassetto delle preferenze sempre più lontane dai canoni classici dell’Oscar bait, iniziato nel 2017 con Moonlight. A causa di una sempre più innovativa qualità tecnica, di una certa commistione tra generi e una diversificazione del gusto, prevedere la vittoria di un film con certezza matematica sarà sempre più difficile.
“Women Talking” per una risposta collettiva
Un’atmosfera di empatia, poesia e complicità femminile pervade il film di Sarah Polley, sostenuta da un’urgenza emancipatoria che guida la narrazione anche nei suoi momenti più bui, realizzati con brevissimi flashback che lasciano solo intuire le singole violenze subite, affidandosi ad una performance d’insieme saggiamente dosata per tratteggiare un discorso corale. Con la vittoria agli Oscar 2023 per la migliore sceneggiatura non originale, Women Talking – Il diritto di scegliere ha aperto una breccia nel pianeta hollywoodiano.
“La maman et la putain” tra la fine della rivoluzione e l’odissea linguistica
La tensione fra il detto e il mostrato non si allenta mai in La maman et la putain. Le parole vaghe dei protagonisti narrano una storia di intellettualismi e tentativi di riflessione, di una Francia post ‘68 dove l’impeto rivoluzionario ha ceduto il passo all’indolenza. I volti, la giustapposizione dei corpi e i controcampi nelle scene di dialogo ne raccontano un’altra: quella di un’incapacità totale di percepire se stessi e quindi gli altri, di una necessità infantile di nascondersi nel vuoto della quotidianità.
Uno, nessuno, centomila Philip Marlowe
“Nessuna cicatrice visibile. Capelli castani, con qualche traccia di grigio. Occhi marroni. Un metro e ottanta per ottantacinque chili circa. Nome: Philip Marlowe. Professione: detective privato”. L’identikit – che in realtà ci dice assai poco di Marlowe e forse volutamente – è quello che Raymond Chandler tratteggia nel suo Il lungo addio, sesto romanzo, uscito nel 1953, con protagonista il famoso investigatore privato. Una descrizione vaga ma preziosa, per tutte le trasposizioni cinematografiche.
“Mixed by Erry” e l’epica del cinema italiano
Mixed by Erry , inoltre, affronta apertamente un tema che negli altri film restava sottotraccia, il disorientamento difronte ai cambiamenti – tecnologici e/o sociali – al cospetto dei quali è necessario reinventarsi. Viene facile affiancare lo sforzo che fanno i protagonisti di questo film per reagire alle innovazioni tecnologiche allo sforzo che Sydney Sibilia e Matteo Rovere continuano a fare da diversi anni per proporre un cinema italiano nuovo, più in linea con la produzione internazionale.
“Benedetta” dalla pulsione del piacere
Verhoeven non cerca la sensazione o il clamore, non aggredisce l’iconografia religiosa con la furia blasfema attraverso cui, ad esempio, Ken Russel si faceva beffa dell’ipocrisia cattolica nel suo I diavoli (1971). La rigidità monasteriale, custodita dalla glaciale Suor Felicita di Charlotte Rampling, diviene l’arida culla in cui l’essenza di Benedetta trova il modo di espandersi. Le visioni che agitano le sue notti e turbano le sue giornate sono l’ultima barricata di un costrutto opprimente, destinato ad essere eroso dall’emersione del piacere, quell’Es freudiano latente ma impossibile da contenere.
“Empire of Light” e l’arte di contenere l’angoscia
Accantonata la prospettiva di manifestarsi sotto forma di dichiarazione d’amore, qui il cinema assume le sembianze di una fune sopra l’abisso. Un’arte in grado di contenere le angosce dello spirito, alternando l’eccitazione vertiginosa generata dalle sue storie immortali al candido conforto di una carezza. Nonostante non sia immune dall’imperfezione, scorre in Empire of Light la tenera sincerità di chi si prodighi a rinnovare una fiducia profonda, disinteressata a chi si senta perduto.
“I guerrieri della notte” nell’inferno della città
Breve viaggio intorno alle fonti secondarie dedicate al capolavoro di Walter Hill, che ci spiegano perché ancora oggi I guerrieri della notte sia considerato un cult impareggiabile. Come ha scritto Pauline Kael: “The Warriors ha un’intensità magnetica. Si svolge dalla notte all’alba, e gran parte dell’azione ha i colori vivaci e brillanti dei pennarelli fluorescenti sullo sfondo dello spaventoso buio newyorkese; le figure si stagliano come un juke-box in un bar scuro. Per tutta la sua durata, questo film barocco possiede una brillantezza psichedelica, che sboccia nella notte”.
“Il patto del silenzio” e lo sguardo dei bambini
Il patto del silenzio diventa il film manifesto del bullismo, interpretato con vigore e slancio passionale dalla straordinaria Maya Vanderbeque e girato da una regista che ha ben compreso che i ragazzini protagonisti, esploratori di una realtà sociale sporcata dalla crudeltà dei minori e dall’incapacità di contenimento da parte del mondo adulto, non riescono a stare sulle spalle dei giganti.
“Mean Streets” 50 anni dopo
“Vivendo nella Little Italy di Manhattan potevi scegliere fra diventare gangster o prete. Io scelsi la via religiosa, ma finii per diventare un regista”. Il neoadolescente Martin Scorsese, bloccato tra le mura di casa per via dell’asma, guarda dalla sua finestra il formicaio umano di Little Italy e i goodfellas che ne popolano le strade
“Actual People” nel mondo degli adulti
L’ingresso problematico nella vita degli adulti è ormai un classico della cinematografia da Il laureato in giù, e sempre perennemente al centro degli interessi del giovane cinema indipendente statunitense. Actual People però non sembra solo stare lì a dimostrare che il mumblecore è vivo e lotta sui nostri schermi. Pur senza innovare nulla della forma cinematografica del genere – e non pare il caso di chiedere tanto a un’esordiente – Zauhar trova senza dubbio una sua cifra di rappresentazione.
“Laggiù qualcuno mi ama” e la fragilità rivoluzionaria
Laggiù qualcuno mi ama è un film con cui Massimo Troisi, a settant’anni dalla sua venuta al mondo, torna al cinema per essere riascoltato, rivisto, per stare con il suo pubblico ancora una volta e per insegnarci che a volte anche la fragilità può esplodere come tratto umano capace di rivoluzioni silenziose, ma durature. L’universalità del suo messaggio insieme alla misura della sua poetica sono riportate a galla dalla intelligente costruzione martoniana capace di mescolare sapientemente immagini di repertorio, spezzoni di film, contributi televisivi e documenti inediti.