Non si può che scrivere subito, appena usciti dalla sala, del restauro di Sayat Nova, più conosciuto con il titolo di Il colore del melograno. Prima di esprimere lo sperdimento per i cromatismi, le stoffe, i tappeti, i monili, gli arazzi, i copricapi, gli anelli, le sciarpe, i bassorilievi, le pietre e tutto quello che viene riportato a nuova luce dal restauro del film, dobbiamo dare qualche spiegazione sul processo di edizione. Il lavoro, molto lungo, supervisionato da Olivia Harrison (moglie di George) per la World Foundation di Scorsese – manco a dirlo, enorme appassionato di Paradžanov – si è svolto tra Gosfil’mofond (la cui copia ha generato il 4k dal negativo camera originale) e Centro Cinematografico nazionale armeno. Il film, infatti, con il titolo originale uscì 45 anni fa in Armenia in una versione che di fatto non si è mai più vista, a causa del fatto che a Mosca l’opera non fu giudicata consona alla biografia del poeta e criticato perché il regista si prendeva troppe libertà, persino autobiografiche. Il film fu dunque rifiutato, e persino in Armenia comunque tagliato, e rimontato con riferimenti all’artista. In seguito, il regista Sergei Yukevitch fece poi in modo di mostrarlo in URSS con una versione da lui preparata con intertitoli in russo che spiegassero meglio il film, riordinando però il plot e riassemblando tutto . Ovviamente, Paradžanov rifiutò questa versione. Come noto, prima ancora che ingiusta, la censura è idiota. Come si può pensare di “narrativizzare” Il colore del melograno (titolo scelto proprio per la distribuzione russa)?

Ecco che, sebbene non si possa essere sicuri della perfetta coincidenza con la prima versione “armena” del film, il Sayat Nova visto oggi certamente ci si avvicina. Molto della ricostruzione, oltre che delle tecniche di restauro dell’Immagine Ritrovata, si deve a esperti storiografi e critici, tra cui James Steffen, oggi in sala, autore di un importante e definitivo volume sul regista armeno. Di Paradžanov vale la pena anche ricordare che nel museo a lui dedicato aperto a Yerevan, in Armenia, c’è una sezione che racconta i suoi anni di prigionia, e che ricorda come l’autore, privato di penne, matite e carta, abbia inciso miniature (oggi conservate) con le unghie sui tappi di alluminio del latte.

Del film che dire? Si tratta di un’esperienza in tutti i sensi, astrazione pura, e ci è piaciuto vedere seduto in sala Alexander Payne, qui da cinefilo spettatore. E il colore del melograno torna a risplendere. Ed ecco le parole di Scorsese: “Guardare Il colore del melograno, o Sayat Nova, di Sergej Paradžanov è come aprire una porta ed entrare in un’altra dimensione dove il tempo si è fermato e la bellezza si manifesta senza costrizioni. A un primo livello di lettura, il film narra la vita del poeta armeno Sayat Nova. Ma è soprattutto un’esperienza cinematografica dalla quale si esce recando con sé immagini, reiterate movenze espressive, costumi, oggetti, composizioni, colori. Sayat Nova visse nel Settecento, ma le immagini e i movimenti del film sembrano venire dal medioevo o da tempi ancora più antichi: i tableaux cinematografici di Paradžanov sembrano intagliati nel legno o nella pietra e i colori paiono essersi materializzati naturalmente dalle immagini nel corso dei secoli. È un film assolutamente unico. Sognavamo da molti anni di vedere Sayat Nova nella forma originariamente voluta da Paradžanov”.

Ciné-fils