Continuano i materiali post-Cinema Ritrovato che il sito di Cinefilia Ritrovata continua a pubblicare. Questo dovrebbe essere l’ultimo, una bella intervista allo studioso di cinema muto italiano Denis Lotti. Abbiamo avuto il piacere di intervistarlo a Bologna. Lotti, docente all’Università di Padova, ha presentato al festival Sperduti nel buio.

Partiamo dal Cinema Ritrovato, come è nata l’idea del documentario Sperduti nel buio?

Sperduti nel buio non è nato da una mia idea, bensì, come emerge dal documentario, da alcune situazioni concatenate che si sono a creare quando il regista Lorenzo Pezzano si è trovato a disquisire con il professor Brunetta, Ordinario all’Università di Padova in Storia del Cinema, su alcune questioni riguardanti la Scalera Film di Venezia. La Scalera Film è un’esperienza misteriosa, perché Venezia, come molti sanno, è una città che ha un set pronto da circa un millennio poco più, però inspiegabilmente non è mai iniziata una vera attività produttiva in loco come invece è accaduto a Torino, Milano, Roma o Napoli. Alla fine degli anni ’30 ci sono sempre meno film americani in sala e Mussolini chiede ai fratelli Scalera, costruttori edili, di investire denaro nella produzione cinematografica. Una produzione di alto livello, concorrenziale, che si avvale di una sede a Roma e una a Venezia, nell’Isola della Giudecca, che è l’isola più remota del centro cittadino della città. Nel 2007 Pezzano riesce a riprendere gli studi della Scalera in rovina, e oggi sono stati sostituiti da un nuovo complesso abitativo, e da lì desiderava ricostruire la parte veneziana della storia della Scalera Film. A quel punto il professor Brunetta lo mette anche sulle tracce di una storia parallela degli stessi anni della Scalera, quella del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma: nel 1943 la Wehrmacht decide da una parte di comperare i macchinari di Cinecittà e dall’altra di requisire la filmoteca del Centro Sperimentale. I macchinari di Cinecittà sarebbero dovuti andare a Venezia, mentre i film erano destinati a Babelsberg, sobborgo di Berlino, ufficialmente per essere protetti dall’avanzata degli Alleati da Sud. Purtroppo sappiamo che non è stato così.

Quando entri in gioco tu?

Il professor Brunetta ha pensato a me per alcune caratteristiche legate alla mia formazione storico-cinematografica, e questo mi ha permesso di seguire da vicino le fasi della ricerca. Poi il regista, ahilui, mi ha visto e ha pensato che fossi adatto anche a un altro ruolo, quello di protagonista, colui che in qualche modo insieme ai vari Virgilio scendo negli inferi della storia del cinema italiano ai tempi di Salò.

…una sorta di novello Dante!

Diciamo che si presentava come un vero e proprio viaggio nell’ignoto, non sapevamo dove si sarebbe andati a finire. Quel che si sapeva, invece, era che una delle piste principali portava dritti a Mosca, ma per il resto è stato tutto giocato giorno per giorno seguendo di volta in volta nuove tracce e nuovi percorsi di ricerca.

Quanto ti hanno dato questi viaggi alla ricerca di un materiale perduto? Hai fatto anche delle scoperte molto importanti.

Credo che senza questo documentario non avrei mai intrapreso un viaggio del genere, l’epoca di cui parliamo non è quella del muto. Il Centro Sperimentale conteneva capolavori del cinema, o presunti tali, come Sperduti nel buio (1914) che dà il titolo al film, e Sole (1929) di Blasetti, oppure “non-film” come Ragazzo (1933) di Perilli, mai proiettato in sala a causa di contenuti definiti scabrosi, legati all’adolescenza e alla sessualità. Questi tre film, tra i 313 trafugati, sono parte della mitografia storico-cinematografica italiana. Che tanto si basa su personalità del Centro Sperimentale stesso, ovvero Luigi Chiarini, Umberto Barbaro e Francesco Pasinetti che in qualche modo sono i tre grandi animatori della scuola del cinema di Roma.

Da studioso ma anche da appassionato, cosa provi quando scopri un nuovo film?

Bisogna fare a metà con la fortuna, innanzitutto, perché devi trovarti nel posto giusto e avere l’intuizione giusta. Quando capita penso che in fondo non tutto il patrimonio cinematografico è perduto e mi faccio coraggio. Questo succede in particolare per le pellicole in nitrato infiammabile quindi non solo per il periodo del muto. Ma trovarsi davanti un film muto italiano che ha preso la via dell’Europa sulla scorta di un successo planetario antico – oggi misconosciuto – è ancora più emozionante.

Ti era già capitato di fare un tipo di ricerca di questo tipo, ovvero di andare in una Cineteca estera e analizzare del materiale che non era mai stato visionato da nessuno?

Sì, mi è già capitato. Perché per fortuna le cineteche si stanno aprendo agli studiosi. Forse i conservatori gelosi hanno fatto il loro tempo, sempre più si sta capendo che è vantaggioso condividere i propri tesori con la comunità scientifica e le mostre del cinema, poiché questo atto dà lustro alle collezioni e danno senso alla sopravvivenza delle cineteche. Mi è capitato di identificare alcuni frammenti, uno dei quali è stato anche proiettato a Pordenone, alle Giornate del Cinema Muto, conservato presso l’Österreichisches Filmmuseum. È Ironie della vita del 1917 con Italia Almirante Manzini e Gian Paolo Rosmino; Almirante è attrice molto famosa, già interprete in Cabiria, grande successo del cinema italiano più antico che festeggia i cento anni quest’anno. Ironie della vita, invece, è un film tipico del periodo della Grande Guerra: melodramma borghese che si rifà ad altri cliché di successo, ad esempio Ma l’amor mio non muore del 1913, con Lyda Borelli, la grande Diva celebrata in tutto il mondo. Oggi sembra quasi impossibile, ma questi nomi, di fatto dimenticati, hanno fatto grande l’industria cinematografica italiana dell’epoca.

Come ci sei arrivato?

Grazie alla presenza riconoscibile della Almirante, ma soprattutto all’autobiografia di Rosmino che ha fatto “da prova del nove”. Nel frammento superstite del film appare una didascalia, un cartiglio o scritta di scena, che riproduce in soggettiva una lettera firmata “Gian Paolo”. Ecco, con tutto il rispetto, Gian Paolo non è un nome intonato a un cinema con vaghe ascendenze dannunziane, stracolmo di nomi altisonanti o poco ordinari. È bastato verificare che l’unico attore di nome Gian Paolo a me noto, ovvero Rosmino, avesse lavorato con Italia Almirante. In seguito, consultando l’autobiografia e un repertorio filmografico dell’epoca ho avuto la conferma del titolo. Infine nell’autobiografia sono ospitate foto di scena di Ironie della vita.

A livello metodologico come ti muovi? Ci sono dei stati dei casi particolari in cui l’identificazione è stata particolarmente complessa, oppure al contrario altri che hai riconosciuto all’istante e magari hai detto “ecco, questo è il film che stavo cercando!”?

Sono successe entrambe le cose. Tra i film che sono stati relativamente semplici da identificare due sono ovviamente su Ghione, dico ovviamente perché di Emilio Ghione, divo e regista del muto italiano famoso interprete di Za la Mort l’apache parigino, mi sono occupato per lungo tempo. Uno di questi film è conservato a Mosca, presso il Gosfilmofond, ed era salvato in un file col titolo giustapposto Za la Mort perché era il titolo più semplice da compilare per il conservatore dell’allora cineteca sovietica, o chi per lui. Da lì facendo ricerche incrociate, dopo aver visto il frammento superstite, mi sono concentrato sui singoli attori/personaggi, perché ad esempio in questo film Kally Sambucini, la partner storica di Ghione/Za la Mort non interpreta Za la Vie, bensì una certa fioraia Albaspina. Sono andato a vedermi tutti i soggetti conservati al Museo del Cinema di Torino e da lì sono riuscito a capire che quel film in realtà s’intitola Sua Eccellenza la Morte, parte della saga di Za la Mort che Ghione gira quando torna a Torino nel 1919. In un altro caso, ho acquistato in una bancarella un frammento in 16mm. Allo stesso modo il collezionista aveva giustapposto il titolo Za la Mort. In quel caso sono risalito al titolo grazie a una brochure spagnola conservata presso l’archivio privato del professor Brunetta. Nella pellicola non c’erano didascalie che rimandassero al titolo del film, ma in una scena si vedeva Za la Vie (ecco in questo caso Sambucini interpreta la compagna di Za la Mort) legata a una sedia e nella brochure era descritta la medesima scena. Insomma il frammento faceva parte del primissimo serial di Za la Mort Il Triangolo Giallo, che ad oggi risulta disperso, dunque quella da me acquistata è l’unica copia esistente, ancorché un frammento di pochi metri. Insomma bisogna sperare che nei pochi documenti cartacei, brochure, pubblicità, piccole recensioni che si possono ritrovare nella stampa d’epoca, si trovi qualche rifermento al film e, quando c’è, che sia veridico! Diventa semplice la ricognizione nel momento in cui i pezzi cominciano a collimare, ma devi prima accumulare dati ed esperienza. Quando inizi a conoscere i volti degli attori, ti fai un’idea pressappoco anche sulla possibile datazione a cui il film ignoto potrebbe risalire. Ghione, ad esempio, inizia a fare film quando aveva trent’anni, verso i quaranta ha sempre meno capelli, è sempre più rugoso, sempre più magro. Ci sono anche i dati fisiognomici, insomma, che ci possono aiutare l’identificazione e la collocazione temporale.

Casi di identificazioni più complesse, invece?

Nel documentario si vede che maneggio una pellicola virata appartenente alle collezioni del Gosfilmofond di Mosca. All’epoca non l’ho ancora identificata, ma una volta a casa sono riuscito a trovare il titolo, si tratta di L’Ave Maria di Gounod dell’Ambrosio (1910). In quegli anni l’Ambrosio, Casa di produzione torinese, aveva un collegamento diretto con la Russia. Il film è completo ma mancante dell’incipit. Tra le didascalie in cirillico ve n’è una in latino: «Ave Maria». Da lì è iniziata la mia ricerca, ho letto le sinossi di tutti i film dell’epoca che contenevano nel titolo “Ave Maria”, così la ricerca ha avuto successo. Il film è un classico mélo debitore della tradizione operistica italiana, narra la storia di un violinista zingaro che s’innamora, corrisposto, di una giovane nobildonna; i genitori di lei osteggiano la relazione. Ma la giovane un brutto giorno si ammala di tisi, sul letto di morte i genitori le consentono di rivedere il suo amato, che le suona per l’ultima volta l’Ave Maria di Gounod. Datole l’addio, lo zingaro salpa a bordo di una barca e lontano dalla costa getta tra le onde il violino. Da esperienze come questa capisci quanto conti la fortuna nella ricerca e un po’ di intuizione. Il metodo e gli strumenti vengono subito dopo, anche perché in film come questo gli attori giovanissimi ripresi in campi lunghi erano praticamente irriconoscibili, almeno per me.

Quali sono i punti di riferimento per i materiali extrafilmici?

Il Museo del cinema diTorino e la Cineteca di Bologna soprattutto, anche il Centro Sperimentale per l’Archivio storico, la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, soprattutto, ma sono molte le istituzioni che conservano materiali utili alla storia del cinema. Larga parte nel lavoro storico hanno i visti di censura che raccontano di fatto i film nel dettaglio. E tutto il repertorio stilato negli anni da Bernardini e Martinelli, sia sul cinema muto italiano che sui film stranieri circolati in Italia.

Passiamo ora a Emilio Ghione di cui ti sei occupato a lungo. Tra le tue pubblicazioni, quella che mi aveva colpito in particolare è Scritti sul cinematografo pubblicato lo scorso anno in collaborazione con Airsc edizione Cattedrale. I documenti risalgono, se non erro, agli anni ’20. Perché secondo te non erano stati ripubblicati prima, quando invece sono molto importanti per la definizione della storia del cinema muto italiano?

L’inizio di un interesse storico rinnovato a livello mondiale nei confronti del cinema muto risale alla fine degli anni Settanta. Quindi tutti gli anni a ritroso che stanno tra il 1980 e il 1928/30, quando è stato pubblicato il testo che citavi, rappresentano una sorta di lungo oblio. In realtà i testi di Ghione che ho raccolto in Scritti sul cinematografo sono due, uno è quello pubblicato in Francia postumo, che ho ritradotto in italiano, mentre l’altro è un’autobiografia che l’attore pubblica a puntate non regolari su una rivista molto bella, “Cinemalia”, che, purtroppo, improvvisamente tace e quindi interrompe anche le pubblicazioni dell’autobiografia di Ghione. Il testo si intitola Memorie e Confessioni. 15 anni di arte muta, e secondo i miei calcoli doveva raccontare un arco di tempo che va dal 1909/1910 fino al 1925, ovvero gli anni in cui Ghione lavora nel cinema in maniera attiva. Dopodiché, nel ’25, Ghione, una volta terminato l’ultimo kolossal del muto italiano Gli ultimi giorni di Pompei, smette di fare l’attore e regista assieme a molti altri colleghi. Non per sua volontà, purtroppo, ma per mancanza di progetti, e per il collasso definitivo della produzione italiana. Così negli anni dal ‘25 al ’30 Ghione si improvvisa narratore e lo fa mentre nel mondo si paventa (o già si fa) il cinema sonoro. C’è da aggiungere che era molto malato e sapeva di non avere ancora molto da vivere, nonostante l’età relativamente giovane. Ghione allora va in Francia in cerca di lavoro, viene addirittura ingaggiato dal progetto di l’Art Cinématographique, che è un’importantissima “enciclopedia” dedicata al cinema con lo scopo di rendere il cinema maggiormente fruibile anche da un punto di vista teorico, didattico e storico. A Ghione spetta il compito di raccontare la storia del cinema muto italiano. E lo fa in maniera ghione-centrica: non è un attore, è un divo e quindi il suo approccio è senza mediazioni, ma in fondo è quello che i suoi lettori si aspettano da lui. La cosa interessante è che Ghione non dice sciocchezze come altri suoi colleghi in vena di autocelebrazioni, o meglio ne dice qualcuna, ed esagera, ma ad esempio dà un imprinting storiografico che si rivelerà decisivo: crea il torinocentrismo cinematografico, è un’idea che si mantiene viva ancora oggi quando leggiamo che il cinema in Italia è stato inventato a Torino. Questa è una mezza verità, perché un’altra grande casa di produzione risiedeva a Roma dal 1906. Torino era forse il polo più affollato, importante e vivace, anche perché era vicino a Lione, ovvero vicino alle officine Lumière, però Roma, con la Cines, si difendeva molto bene, diciamo. Il torinese Ghione dà quindi questa leva di certezza ai primi storiografi. La teoria sarà adottata nella prima storia del cinema composta in Italia, nel 1932, da Margadonna; la riprenderà pari pari Pasinetti nel 1939 e poi anche Palmieri nel 1940. Insomma la prima storiografia italiana si basa su questo saggetto francese di Ghione! Il secondo testo, Memorie e Confessioni, l’ho ritrovato personalmente dopo anni di ricerche nel 2008. Erano noti fino ad allora solo alcuni episodi. Il testo usciva in inserti staccabili assieme alla citata rivista “Cinemalia”, il bordo dell’impaginato era tratteggiato e quindi il lettore poteva staccarlo foglio per foglio e rilegarlo altrove. È un testo scritto precedentemente a quello pubblicato in Francia, che pare una sintesi. È un memoriale affidabile, racconta alcuni retroscena molto interessanti, come il ritiro di Pastrone o la questione legata a La signora dalle camelie, i due film coevi che segna la guerra tra la diva Francesca Bertini ed Hesperia attrice molto nota all’epoca. Questioni che erano nell’aria, ma che lui racconta nel 1928, al contrario di altri che scrivono memoriali dopo molti anni dalla fine del muto. Ghione, invece, pubblica quando tutti i protagonisti citati hanno l’eventuale possibilità di ribattere. Pastrone, ad esempio, quando parla nel Dopoguerra si può permettere di dire di tutto, anche qualche inesattezza. Per me è stata un’esperienza molto importante perché questo diario di Ghione l’ho rimesso insieme pezzo per pezzo, recuperandolo tra molte biblioteche. Un pezzo l’ho trovato a Torino, uno nello studio del professor Brunetta, un altro a Bologna e poi i restanti a Milano.

 

Hai anche pubblicato per la Nerosubianco il primo romanzo di Za la Mort, se non erro il primo di una sorta di trilogia. Com’è il Ghione romanziere?

Facendo delle ricerche mi sono imbattuto in questi romanzi che sono tre. Ho fatto pubblicare il primo che si intitola semplicemente Za la Mort. Il secondo è L’ombra di Za la Mort, uscito per Bietti, il terzo è Le Maschere Bianche ed è la novellizzazione di un film che non è mai stato pubblicato. Mi sono trovato di fronte a un personaggio straordinario, perché nessun divo del muto italiano è stato poliedrico quanto lui. Non è solo attore, regista, sceneggiatore, ma impara la lezione dannunziana e la mette a frutto in un divismo più unico che raro, ben diverso da quello del forzuto Maciste/Pagano per dire. Si diletta a scrivere per il teatro, diventa memorialista/storico, addirittura. Infine diviene romanziere: in verità quella di Ghione è narrativa ridondante da fogliettone tipica dell’epoca, la sua importanza è più storica e culturale che letteraria, anzi. Ma la sua è una figura decisamente complessa, ricorda vagamente quei poligrafi eruditi del ‘700 che si dilettavano su molti fronti e discipline anche se non tutto riusciva al medesimo livello qualitativo: diciamo che la cifra più importante della sua intera carriera rimane quella dell’attore. Ghione si butta sulla narrativa quando il cinema lo abbandona, perché il romanzo Za la Mort è di fatto un ibrido tra il soggetto del primo film della saga Za la Mort del 1915 e quello di l’incubo di Za la Vie (1924), girato in Germania con maestranze tedesche, che è il più bel film di Ghione in assoluto. Quest’ultimo è dotato di una fotografia straordinaria e un utilizzo della regia molto diverso da quello di I Topi Grigi (1918) ad esempio, quasi fosse un’altra era geologica. Il romanzo esce per la prima volta nel 1925 pubblicato da “Il Mondo” di Amendola, giornale di opposizione al regime fascista. Il plot del primo romanzo può risultare sorprendente ancor oggi poiché grandguignolesco e contenente racconti erotici piuttosto espliciti. Tutto quello che non era consentito alla produzione cinematografica era invece concesso alla narrativa disimpegnata. Quando “Il Mondo” chiude in modo drammatico e violento per mano degli squadristi, Ghione si rivolge all’editore Nerbini di Firenze per ripubblicarlo, così Za la Mort esce in dispense illustrate dal grande disegnatore Giove Toppi, che tratteggia un Ghione ideale, decisamente più giovane rispetto all’epoca.

Per il secondo libro invece?

Il secondo “romanzo”, L’ombra di Za la Mort, pur uscendo prima della morte di Ghione, ovvero nel 1929, mi pare sia apocrifo. La vicenda mette in scena un Ghione/Za la Mort fuori dagli schemi della saga, fuori anche dagli stereotipi. Ad esempio non ha una redazione con la Sambucini, ma riprende inoltre alcune storie dell’autobiografia pubblicata un anno prima su “Cinemalia”. Dal mio punto di vista è un testo messo insieme con un taglia e cuci neanche tanto accurato e raccordato velocemente, senza troppa coerenza. C’è da dire che nel 1929 si diffonde sulla stampa la voce che Ghione è gravemente ammalato di tisi, questo attira l’attenzione nazionale. Viene addirittura organizzata una colletta per riportarlo a casa dalla Francia dove temporaneamente risiede. Da Parigi viene dapprima trasportato a Torino, ed è talmente povero che viene ricoverato nel reparto ospedaliero dei “miserabili”, no, all’epoca non c’era il soccorso del politicamente corretto. Nel 1929 viene scattata una foto che ritrae un Ghione smarrito, smunto cadaverico, e pubblicata in “Comoedia”, una blasonata rivista di spettacolo edita da Mondadori. Ciò mobilita una campagna di solidarietà. Emilio non vuole morire a Torino, ma a Roma, la città che gli ha dato la gloria a suo dire. Viene caricato su un treno piombato e portato a Roma dove muore nel gennaio successivo. Penso, quindi, che L’ombra di Za la Mort sia un instant book che viene messo assieme per cavalcare la sfortuna di Ghione.

Nel volume dal titolo Emilio Ghione l’ultimo Apache, pubblicato per la Cineteca di Bologna, ripercorri passo passo la vita del divo.

È un lavoro che è partito da alcune consultazioni avute nottetempo su Wikipedia nel 2003. Volevo farmi un’idea su questo attore che avevo studiato nel contesto della storia del cinema italiano, che in realtà aveva attirato la mia attenzione fino a un certo punto, perché all’epoca, da studente, non scommettevo molto sulla storia del cinema muto. Ero incerto, ma ho cominciato a fare ricerche su internet. Non c’era molto, forse giusto due sciocchezze sulla pagina Wikipedia, appunto. Però c’era qualcosa di interessante legato alla sua vicenda cinematografica. Trovai ad esempio un manifesto tedesco, molto bello, che ha attirato definitivamente la mia attenzione. Il fatto che avesse lavorato in Germania mi ha fatto interessare di più alla sua causa. Tempo due notti insonni passate con gli occhi spalancati a individuare qualche appiglio nel buio, come succede ai laureandi, e da lì è partito tutto. Il salto di qualità quando sono approdato all’Archivio del Museo del Cinema di Torino dando per scontato che avrei trovato qualcosa di più, essendo lui torinese. C’era molto, ma non un archivio personale, come speravo, purtroppo. Ghione muore in povertà e le sue memorie e i suoi averi vengono dispersi. L’unico familiare che lui aveva, cioè il figlio Francesco, è stato allevato dalla madre da cui Ghione si allontana molto presto. Questo figlio seppi che era morto nel 1982. Sospettavo che lui avesse avuto o una o più figlie o nessun discendente, questo perché in un paese patriarcale come l’Italia è più facile trovare notizie sui maschi; si può risalire molto facilmente ai figli, viceversa una prole di sesso femminile pare scomparire nel nulla. Nel 2008 mi sono iscritto a Facebook nella speranza di attirare i discendenti di Ghione, poco prima di chiudere il libro pubblicato con la Cineteca di Bologna. Ho dunque aperto una pagina dedicata ad Emilio Ghione, che c’è ancora oggi, come sorta di appello, una tela di ragno tessuta nella speranza che ci cadesse qualche familiare. Il bello è che questo è accaduto, ma dopo che il libro è andato in stampa, purtroppo. Ed era davvero l’unico modo per trovare i discendenti di Ghione perché oggi vivono a Hong Kong e a Shanghai.

Però Ghione figlio ha fatto anche un film sul ritorno di Za la Mort con il nome di Emilio Ghione Jr.

Sì, mi son chiesto anche il perché, poi ho trovato la risposta. L’anno precedente in Francia rifacevano Fantômas un collegamento tra i due personaggi c’è sempre stato, per affinità. Siamo nel 1947 e Za la Mort era ancora conosciuto da larga parte del pubblico, non dimentichiamo che molti film muti continuavano a circolare anche negli anni di guerra, perché c’era molta richiesta di film e gli esercenti non sapevano più cosa proiettare quindi qualunque pellicola era adatto all’uopo, anche muta. Quindi il figlio, che in verità si chiama Pierfrancesco, e assomiglia moltissimo al padre, gira questo Fumeria d’oppio diretto da Raffaello Matarazzo, che ha questo sottotitolo spurio Ritorna Za la Mort che si trova o meno nei manifesti. Lo pseudo sequel riprende le vecchie storie di Za la Mort sia con la fumeria d’oppio sia per i cattivi orientali. Non mancano cliché della vecchia saga, ma l’esperimento fallisce l’ipotetica nuova serie si arresta sul nascere.

La tua passione per il cinema muto nasce con Ghione o in una fase precedente?

Questa passione è nata quando volevo laurearmi in storia e mi è capitato di vedere alcuni film “dal vero” muti, antenati dei documentari-reportage, relativi alla prima guerra mondiale, o addirittura risalenti al periodo della guerra di Libia, da lì ho voluto approfondire di più. Avrei dunque voluto laurearmi con una tesi sui film dal vero di guerra, ma all’epoca non c’era una grossa disponibilità e quindi neanche la possibilità di poter fare delle ricerche approfondite. Allora, essendo di Vicenza e visto che lo era anche Eugenio Ferdinando Palmieri, almeno di nascita, speravo di trovare in città un archivio di Palmieri, giornalista che aveva scritto una prima storiografia sul cinema muto nel 1940, Vecchio cinema italiano, peraltro molto attendibile. Non sono riuscito a trovarlo lì per lì, ma l’ho trovato un anno dopo a Bolzano in maniera molto fortuita, dove si trova tutt’ora.

Le vecchie edizioni sui film del cinema muto erano spesso pessime, penso ad esempio alla versione Vhs di I Topi Grigi di Ghione, che è a tutt’oggi l’unica versione circolante del film. Sta cambiando qualcosa?

Qualcosa sta cambiando, ma ad esempio sono rimasto molto colpito in negativo da un cofanetto, uscito di recente, dedicato a Rodolfo Valentino, non insomma dedicato Emilio Ghione o qualche altro personaggio misconosciuto, e ho trovato davvero discutibile la pratica infinita di riutilizzare copie pessime, annunciarne sulla copertina una fantomatica rimasterizzazione quando è un semplice riversamento in dvd. Diciamo che con il restauro di Metropolis del 2010 destinato a un pubblico ben più ampio di quello consueto del muto si sta creando una cultura più esigente, finalmente. Nessuno leggerebbe volentieri un libro stampato male, con poco inchiostro, o con una rilegatura incerta, parimenti non si capisce perché uno spettatore debba sorbirsi edizioni di film fuori quadro, fuori sincrono, sperduto tra nebbie e foschie varie. Se però penso alle edizioni di cineteche estere e italiane siamo dinanzi a prodotti molto buoni, anche a livello di apparati ed extra. Il problema è che il mercato è ridotto, però sappiamo bene anche noi che siamo una sorta di setta accerchiata da agguerriti cinefili sonorizzati. Negli ultimi anni, qui al Cinema Ritrovato, con i dvd di Sangue Bleu di Oxilia e Ma L’amor mio non muore dello scorso anno, siamo dinanzi a due prodotti di alta qualità, però è venuto a mancare il volumetto, o meglio è stato sostituto da una piccola brochure, ma è un peccato vedere queste involuzioni rispetto al passato. Credo che gli sforzi della Cineteca di Bologna siano comunque encomiabili.

Lì magari subentrano anche problemi di costo, per andare sotto i dieci euro, si deve sacrificare un booklet corposo.

Sì, però è vero che il booklet incentiva anche la ricerca e un appassionato è disposto a spendere qualche euro in più in quel caso. Ma spero sempre che un giorno passi questo periodo di continua recessione anche culturale. Anche perché il successo di questo Cinema Ritrovato fa ben sperare. Ho visto le sale dove si proiettava il muto piene come non mai.

Vuoi aggiungere altro prima di salutarci?

Posso rivelarvi in anteprima i film che ho identificato al Gosfilmofond di Russia, solo per i lettori di Cinefilia Ritrovata.

Uno scoop!

Sì, esatto! Allora i film completi sono: L’ave Maria di Gounod (1910) produzione d’Ambrosio in nitrato, molto bello e colorato; La piccola mendicante di Caserini o di Guazzoni con Amleto Novelli (1910) produzione Cines, è una copia safety, ed è forse uno dei primi ruoli di Novelli; Come fu che Florindo sposò la serva con Natalino Guillaume (1912) una comica con il più scarso dei fratelli Guillaume, ed è conservata sempre in safety. Per i frammenti ho identificato Fernanda di Gustavo Serena (1917) e Sua Eccellenza la Morte di Ghione (1919).

C’è una possibilità di vedere un restauro di questi film?

Questa è una parte molto triste della storia, perché avevo inviato una lettera a Valerij Bosenko, persona molto disponibile e gentile, che era il mio referente al Gosfilmofond, purtroppo Bosenko era malato gravemente e dopo pochi mesi dal nostro incontro è morto. Quindi queste scoperte non hanno avuto un seguito perché manca un referente russo. Dovevo incontrare a Bologna un nuovo funzionario del Gosfilmofond, ma come sai si è messa di traverso una noiosa bronchite e quindi non è stato possibile. Però è questione di tempo.

 

Intervista a cura di Yann Esvan