Acclamato dal pubblico al punto di essere nominato “miglior film realizzato a Hollywood nel 1926”, il capolavoro di Erich Von Stroheim torna a farci rivivere i fasti del grande cinema muto; merito, anche, dell’imprescindibile accompagnamento dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, sotto la bacchetta di Stefanos Tsialis. Il soggetto si rifà liberamente all’operetta omonima di Franz Lehár, antecedente di un ventennio la pellicola, e ne distilla l’essenza – sapientemente intinta nel veleno, in una feroce satira della nobiltà mitteleuropea ormai in cammino lungo i viali del tramonto.

La sceneggiatura di Von Stroheim snellisce la trama del libretto e la incastona nella seconda metà del film: sicché la prima parte funge da ideale antefatto alle vicende dell’operetta originale, presentandoci il primo incontro fra la vedova allegra e il principe, per sviluppare solo successivamente la schermaglia amorosa tra i due amanti fortunosamente ricongiunti dalla vita. Hanna Glavari, la vedova allegra di Lehár, diventa la ballerina americana Sally O’Hara (Mae Murray), in tour presso lo stato europeo di Monteblanco, dove rapisce il cuore al principe Danilo Petrovich (John Gilbert), cugino del malvagio principe ereditario Mirko (Roy D’Arcy), nonché al ricco quanto decrepito barone Sadoja (Tully Marshall).

Ma sin da principio, da compendio di galanterie e giocondità viennesi fin de siècle, La vedova allegra è magistralmente trasfigurato da Von Stroheim in una gemma oscura, attraverso le cui sfaccettature si riverberano gli splendori e le miserie dell’impero asburgico, sommerso dalla Storia e senza ritorno: ad esso, il maestro rivolge uno sguardo parimenti intriso di nostalgico languore e di efferata crudeltà, dipanando le architetture di un mondo fatato, ma ormai incancrenito dal decadentismo in cui si trascina. Al di sotto di una patina fiabesca, intarsiata attraverso i preziosismi della sontuosa scenografia – un trionfo di opulente ornamentalità, fra meraviglie architettoniche e divise sfarzose – serpeggia minacciosamente l’ombra dell’abominio, quella sfrenata dissolutezza edonista che giunge a cristallizzazione nelle figure degli antagonisti.

L’opera di Von Stroheim appare dunque animata da un dualismo folcloristico: da un lato, soffusa del lucore di un sincero romanticismo, dall’altro tempestata da brillanti purissimi di perversione. La limpidezza dell’apollineo si adombra sotto la pervasiva incombenza del dionisiaco, e alla presenza del Male il maestro conferisce una palpabile sostanzialità: il ghigno mefistofelico di Mirko e la viziosità del barone Sadoja sono realtà inquietanti, tangibili quanto la commovente devozione di Sally e la disperata impotenza di Danilo davanti alle ragioni di stato. Tanto che, tutto sommato, non stupisce scoprire che il canonico e vissero felici e contenti sia unicamente frutto della coercizione di Irvin Thalberg – tycoon della MGM. Eppure, nonostante l’executive meddling abbia portato a edulcorare notevolmente il disegno originale del maestro, La vedova allegra rimane ben lungi dall’essere una fiaba ambientata in un mondo di confetti e porcellane – mostrando con cupa vividezza contro quale claustrofobico fondale di malvagità si stagli, in realtà, la rarefazione di fiabesco chiarore che domina il film soltanto in apparenza.

Ciò che colpisce maggiormente è forse il modo in cui il linguaggio di Von Stroheim riesce a comunicare con il pubblico attraverso la sensorialità, un punto di approdo che passa attraverso una deliberata stilizzazione – una vera e propria estetica del dettaglio, ben oltre le puerilità di un infantile barocchismo – densamente imperniata su un regime contrastivo.

Il principio del dettaglio [..] si oppone al concetto di particolare. Si intende con il termine particolare una piccola parte di una figura, di un oggetto, di un insieme. Nell’economia della messa in scena, il particolare entra in un rapporto di equilibrio con la sequenza. Il dettaglio invece ci appare più come un ‘programma di azione’: nell’esibizione del dettaglio si cela, e insieme si esplicita, un soggetto che taglia, recide un oggetto. Il taglio si pone allora come punctum, l’affiorare di qualcosa nella scena. Il particolare equilibra la sequenza, il dettaglio invece la sposta, l’inclina, ne facilita la torsione significante: è un polo di attrazione sensoriale che emerge alla vista. [..] Il dettaglio fa riferimento a uno scarto di intensità; [..] suggerisce un’alterazione, un’irregolarità, una sproporzione, che va trasformandosi in pulsione [..]. La sproporzione è un ingrandimento, una dilatazione di senso [..]. [Rinaldo Censi]

È questo equilibrio tra la forma e il suo stesso vivificante traboccare, in armonica dissonanza, a veicolare così profondamente il senso della bellezza – un eccesso che apre alla sensazione, rifuggendo la vertigine della pura dissoluzione, e le incontinenze del delirio espressionistico. A tal riguardo, merita un deciso plauso l’intervento di Maud Nelissen sul versante musicale. La sopraffina rielaborazione della compositrice impreziosisce la partitura originale di Lehár con dei tocchi di modernità nient’affatto invasivi, adattandola con rispettosa premura alle esigenze espressive dell’opera. Si mantiene dunque predominante l’aspirazione a una finezza mozartiana solcata da sfumature di romanticismo popolare – evitando di sconfinare inappropriatamente in una fitta, lussureggiante compattezza di taglio straussiano. Le atmosfere cupe e satiriche di Von Stroheim sono sapientemente integrate dai sottili adombramenti dell’euritmia, attraverso inserzioni zigane – nonché il delicato uso della sincope, che conferisce una squisita venatura jazz alle sequenze più festose del film.

La vedova allegra è in definitiva un capolavoro, che lascia incantati per la perfezione della tensione formale che lo attraversa. Ma in realtà, a lasciare davvero a bocca aperta è la nostra capacità di provare ancora meraviglia, davanti a un modo di fare cinema apparentemente dimenticato da gran parte del pubblico odierno. E nonostante la risoluzione fiabesca che chiude la pellicola, c’è qualcosa nel ricordo di questa esperienza che rassicura e al contempo lascia tormentati. È una bellezza che placa e sgomenta con impalpabile leggerezza, e non conosce tempo – dilaniata tra la ricerca di un’armonia impossibile e un abbandono al caos: laddove, da sempre, dimora l’uomo.

L’abisso più stretto è il più difficile da traversare [Friedrich Nietzsche]; e forse riusciamo a colmarlo soltanto prendendone coscienza. È quando il cuore si spaura, innanzi alla compiutezza di un’asimmetria che ha cessato di agghiacciare – che ci accorgiamo di essere di fronte a un grande classico. E ricordiamo cosa significhi guardare il mondo con stupore, come se fosse la prima volta – un’altra volta – un’ultima volta…

Thi Hòa Evangelisti