Prima dei titoli di testa, una didascalia spiega l’origine delle immagini che compongono il film: provengono da alcune vhs rinvenute dal regista in una discarica di Bergamo. Questo è l’aspetto più angosciante di Moloch: le vite raccontate nei filmini appartengono a sconosciuti che hanno letteralmente gettato via una parte fondamentale del loro patrimonio memorialistico.
È probabile che vi siano casi di trasferimento ad un supporto più leggero e moderno; così come è fuor di dubbio la disaffezione generale alla vetusta videocassetta, non ancora completamente assurta al culto concesso all’oggetto vintage. Tuttavia, disfacendosi dei loro ricordi, gli sconosciuti videomaker amatoriali hanno permesso all’esordiente Stefano P. Testa di tessere una stravagante rete in cui i filmini s’intrecciano col racconto autobiografico di Roberto, un istrionico zio sessantenne ciarliero e vespertino.
Lungo undici capitoli per certi versi tematici, questo cinema di archeologia sentimentale mette in contatto l’individuo con la gente, la confessione privata con il rito pubblico, la parola con l’immagine. Roberto guida la narrazione coi suoi ricordi, Testa reinventa le storie degli sconosciuti a seconda dell’esigenza con estrema libertà interpretativa. Se l’uno riflette sul suo complesso rapporto con la religione cattolica, ecco allora che l’altro inserisce una messa di guarigione sui monti lombardi; quando il primo parla del suo matrimonio anticonformista con la compianta Nadia, il secondo accosta riprese di sposalizi di paese e perfino una specie di videoclip nuziale.
Come l’opera-mondo di Roberto contempla la giovinezza, la mancanza di figli, il rapporto col padre, il lavoro e via discorrendo, il mondo al di là di Roberto vive la banalità del quotidiano e l’eccezione della festa facendo percepire il sereno disincanto di chi ha accettato l’inesorabile scorrere del tempo. Il moloch del titolo è il sistema che tutto fagocita e cita l’Urlo di Allen Ginsberg, lasciando intendere la visione disillusa di Roberto nonché la chiave con cui va letto l’intero film. Ma forse il moloch è il sacrificio del tempo che passa lasciando tracce davvero comprensibili solo ai posteri.
Magari Roberto, mai ripreso in volto, racconta una storia non fondamentale, ma diventa il referente di un luogo, il cuore di un catalogo di vite di uomini non illustri. Ed è perlomeno gustoso imbattersi nella cantante sgraziata ad un festival del 1987, nel bambino che defecando canticchia l’inno di Mameli, nelle signore in gita che se la spassano non riuscendo ad aprire gli ombrelli a causa del vento fino all’anziano signore che ha montato tutti i suoi documentari domestici in una vhs antologica con commento audio da lui stesso declamato.
Lorenzo Ciofani