Porcile è un dramma in undici episodi che Pasolini ha scritto nel 1966 e che poi, nel 1969, ha trasposto nel film omonimo. In occasione della trasposizione teatrale di  Porcile diretta da Valerio Binasco, torniamo sulla pellicola.

Sul film Porcile è stato già detto tanto, fiumi di inchiostro spesi ad analizzare il significato e i motivi di quell’urlo di rivolta, tragico e accusatore, lanciato dai figli verso un sistema sociale antropofago, metaforicamente parlando e non solo, un padre putativo che fagocita l’individuo annullandone l’identità scomoda. A distanza di anni si potrebbe leggere, forse un po’ banalmente ma proprio per questo non così ingenuamente, la sentenza profetica di Pasolini che indossando simbolicamente i panni di Tiresia prende atto del proprio ineluttabile martirio e sancisce il potere dell’artista veggente celebrato da William Blake.

Il regista apre il film mostrandoci dei maiali in una stalla costretti in spazi angusti, animali addomesticati e pronti all’uso che lasciano presto il posto alla caccia forsennata di una preda, una farfalla mangiata avidamente da un uomo affamato (Pierre Clementi), questo San Giorgio senza cavallo che come in un quadro di Vittore Carpaccio trova sul suo cammino ossa e corpi abbandonati. Il silenzio ancestrale viene interrotto dalle urla delle vittime, prede uccise brutalmente dal protagonista rivelatosi un cannibale.

Le rocce laviche dell’Etna sono il paesaggio desertico e alieno in cui prendono forma le prime sequenze di Porcile, distese brulle e impervie tra le quali vaga l’allucinato protagonista, visioni di un ipotetico medioevo che si alternano alle immagini discordanti della “sconfinata villa italianizzante” vicina a Venezia. In questo palazzo dalle simmetrie austere si svolgono le riprese del secondo episodio del film, un dopoguerra in cui si respira l’aria di una dimora decorata dal Tiepolo, “tra affreschi monocromi color neve e china gialla”. Qui Julian, Jean-Pierre Léaud, vi trascorre le monotone giornate, il suo apparente pigro interesse verso il mondo circostante cela un dolore inespresso e inarrivabile che non può essere spiegato a parole, neanche l’insistenza di una giovane e comprensiva Ida (Anne Wiazemsky) può carpirne il segreto.

Villa Pisani che era stata teatro del decisivo incontro tra Mussolini e Hitler torna ad essere, a guerra conclusa, luogo in cui far risorgere dalle ceneri una memoria disturbante che continua a riemergere anche tra le pietre di un edificio palladiano. Ed è in questa dimora che Herr Klotz (Alberto Lionello), industriale e padre di Julian, incontra il nazista Herdhitze, interpretato da Ugo Tognazzi, sui loro volti si leggono chiaramente e parodisticamente i lasciti della guerra a cui hanno preso parte, portando avanti i propri interessi economici durante il periodo bellico o sfogando le proprie perversioni pseudoscientifiche, attraverso lo studio dei crani di commissari bolscevichi ebrei. Herdhitze, per non essere accusato di crimini contro l’umanità, ha cambiato i propri connotati con una plastica facciale “all’italiana”, il viso di Tognazzi ne è la prova, mentre Klotz, paralitico costretto sulla sedia a rotelle come il Dottor Stranamore, celebre ex nazista cinematografico, sfoggia un trucco di hitleriana memoria.

Questi personaggi caricaturali sono i rappresentanti di una società che ha fatto la guerra e ne è uscita profondamente segnata, ancora più perversa e corrotta, la stessa immortalata nelle tele di George Grosz. Ed è proprio questo artista ad essere più volte citato da entrambi i genitori di Julian: “I tempi di Grosz e di Brecht non sono affatto passati. E io avrei potuto benissimo essere disegnato da Grosz sotto forma di un triste maiale e tu di una triste maiala; a tavola, naturalmente. Io col sedere di una segretaria sulle ginocchia e tu con le mani fra le gambe dell’autista”. Come non pensare alle opere dell’artista tedesco, Eclissi di sole o I pilastri della società, dove figure paffute e rosee dai ghigni animaleschi differiscono dai suini solo per la posizione eretta. Ed è forse la spia di Klotz, ruolo affidato a Marco Ferreri, la massima espressione di questo bestiario grottesco, sorpreso dalla telecamera mentre osserva con insistenza il riflesso della propria lingua. Pasolini già in Mamma Roma aveva evidenziato goliardicamente il riferimento al porcile come luogo non estraneo all’uomo, compito affidato alla Magnani affiancata da alcuni maiali infiocchettati invitati al banchetto nuziale.

Questo citazionismo pittorico visivo e parlato, testimonia gli insegnamenti universitari di Roberto Longhi, l’artefice della “fulgurazione figurativa” di Pasolini, come scrive il regista nella dedica del volume della sceneggiatura di Mamma Roma. Longhi, maestro e poi amico, nonché suo iniziatore verso l’arte cinematografica, realizza con Umberto Barbaro un documentario sul Carpaccio, a cui è molto probabile che Pasolini guardi per Porcile.

Le due vicende si concludono con la scomparsa corporea dei protagonisti ad opera degli animali, estrema ferocia della società che distrugge i figli ribelli, Julian si autoproclama libero venendo sbranato dal suo degenerato oggetto del desiderio, mentre il santo senza armatura del Carpaccio, Clementi, (Tiresia ne I Cannibali della Cavani, film uscito lo stesso anno di Porcile), non rinnega davanti alla morte quella che nella sceneggiatura è definita “veggente bestialità”: “Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, e tremo di gioia”.

“Le parole indicibili che escono dalla bocca del cannibale esprimono il piacere ‘di non essere stato uomo tra gli uomini’, la diversità che lega i due giovani protagonisti del film e ne fa due vittime sacrificali. (…) Qui Pasolini lega insieme un’ampia serie di elementi contrastanti, tutto quello che vedeva di drammatico e ribelle nella sua posizione di intellettuale, di poeta, di omosessuale” (M. A. Bazzocchi).

Cecilia Cristiani