Inutile negarlo. Per i cinefili Rondi è stato spesso un nemico. Considerato “il Divo” della critica istituzionale italiana, il Doge dei festival (Venezia in primis), l’uomo del David di Donatello (che fondò) e della RAI, sempre pronto a duellare contro le nuove istanze provenienti dagli ambiti più vivaci del mondo accademico militante e cinefilo, non poteva che diventare bersaglio di tanti strali. Eppure, oggi che dopo una vita molto lunga e spesa fino all’ultimo giorno al lavoro, Rondi non c’è più, noi cinefili dobbiamo chiederci se l’occasione della scomparsa non permetta una più equilibrata riflessione.

Anzitutto, forse bisognerebbe riconoscergli il merito di una attività indefessa. Rondi – e questo è davvero indiscutibile – amava il cinema follemente. La sua prolificità di critico, direttore, conduttore televisivo e radiofonico, docente, politico, animatore culturale, curatore, autore, biografo e altro ancora lo rende parte di quella stagione critica che – con tutte le sue anime – ha contribuito a fondare la cultura cinematografica italiana.

Queste note sono scritte a caldo, proprio perché lo spazio di Cinefilia Ritrovata – come in fondo la cinefilia in sé – ha la necessità di ripensare ogni volta le proprie condizioni di passione, battaglia e condivisione. Del resto, le notizie biografiche sono in queste ore le più facili da trovare (ma non tutte all’altezza). Maurizio Porro, altro decano della critica, per esempio ne propone un ritratto a tutto tondo sul Corriere della Sera, forse il più sincero di quelli usciti a ridosso.

Elencare qui i titoli accumulati – tra cui Direttore della Mostra di Venezia e poi Presidente della Biennale (inventò Leone d’oro alla carriera nel 1971), Cavaliere di Gran Croce e Grande Ufficiale della Repubblica Italiana, Legion d’onore francese ecc. – non servirebbe a molto se non ad accrescere la soggezione. E invece bisognerà ora ripartire dalle grandi raccolte di scritti, specie quelle recenti, non istituzionali, nate in maniera non ufficiale.

I suoi Diari (Le mie vite allo specchio, Edizioni Sabinae, 2016) valgono come testamento, piuttosto consapevole, della sua vita di cronachista della storia del cinema italiano e internazionale, forse uno degli specchi più considerevoli per capire un pezzo di rapporto tra giornalismo dello spettacolo, costume e politica culturale nazionale. Invece Tutto il cinema in 100 (e più) lettere (sempre Sabinae, 2015, presente anche in Biblioteca Renzo Renzi), contiene gli epistolari privati con i grandi autori del cinema italiano, pubblicati con coraggio e trasparenza. Spicca una lettera di Antonioni del 6 marzo 1965, dove – dopo vivissime incomprensioni – il regista ferrarese attacca: “Viviamo nell’epoca di Bond, il quale ti avrebbe scaraventato fuori dalla finestra e subito dopo si sarebbe aggiustato il fiore all’occhiello”, una delle invettive più brillanti tra le molte che – nella storia – hanno contrapposto registi e critici.

E alla fine di questi diari e di queste lettere, guarda un po’, prevale la nostalgia per un periodo in cui la cultura cinematografica possedeva una tale centralità che un intellettuale come Antonioni poteva infuriarsi per un elzeviro di Rondi, e si fa strada un sentimento di ammirazione per l’energia pazzesca che il critico valtellinese (nato nel 1921) mise nel “suo” Novecento.

Update: ecco anche l’articolo di Roberto Silvestri, straordinario,