Se n’è andato qualche giorno fa, ricordato dai cinefili e fan del cinema di serie B, salutato con simpatia mista a vaga indifferenza da parte del mondo del cinema, uno dei padri più indipendenti del cinema horror. Noi non potevamo starcene con le mani in mano, anche se abbiamo atteso qualche ora in più, sapendo che sarebbero usciti articoli interessanti da sottoporre ai nostri lettori. E abbiamo avuto ragione.

Partiamo dal pezzo più suggestivo e informato, quello di Rinaldo Censi su Doppiozero, da leggere integralmente sul sito, ma di cui traiamo alcune righe:

La lezione di Herschell Gordon Lewis è semplice: girare con pochissima pellicola, all’osso, permettendosi una sola ripresa per ogni inquadratura del film, conscio che non tutte saranno riuscite; utilizzare la stanza del motel dove sono alloggiati come set, compresi gli esterni; lavorare su un genere inedito quanto sanguinolento, inserendo un tocco gore. Il che significa avere a che fare con il trattamento di un soggetto che preveda l’uso di sangue sparso, rappreso, pezzi di corpi filmati in un rosso quasi acrilico, iperrealista e in modo intensivo («Gore was easy, because it was obviously the kind of subject that could be handled intensively rather than extensively»); Blood Feast non necessita di abiti di scena, o particolari scenografie, ma solo del rosso, e di qualche pezzo di viscere. E qual è il collante narrativo che tiene insieme questi squartamenti efferati? Effetto serendipity – capita che la trama arrivi, con il suo sapore orientalista, fatto di rituali egizi, solo perché all’esterno del motel svetta la riproduzione di una sfinge. Perché non filmarla architettando l’esile trama (un killer che uccide donne e ne asporta parti per eseguire un vecchio rituale egizio) a partire da quel monumento kitsch e iperrealista (non è la Florida tutta un monumento kitsch e iperrealista)?

 Blood Feast nasce in questo modo. Questo è ciò che ogni scuola di cinema dovrebbe insegnare, insieme alla tecnica: una vera economia produttiva. Qualcosa che Roger Corman armeggiava con grande maestria. Ma, per motivi diversi, vengono in mente anche David Cronenberg, Straub-Huillet, perfino Philippe Garrel (come Herschell Gordon Lewis, Garrel gira un solo ciak per inquadratura, anche se questo aspetto è l’unico che lo avvicina al maestro del gore). Blood Feast è costato 24.000 dollari. Le code per vederlo in sala erano chilometriche, tra svenimenti, vomito e spavento. Per quanto Hollywood avesse sfruttato il genere horror, non si era mai visto al cinema un tale sparpagliamento di frattaglie, che mantengono un appeal quasi cosmetico. Ma è proprio incuneandosi in questa fessura, questo spazio gore lontano dal centro, eccentrico, che Lewis e Friedman fanno centro, inventandosi anche un trailer efficacissimo”.

Poi Michele Tosolini (autore anche di una recente monografia sul regista), sulla testata che non si può non citare di fronte a un regista come Lewis, Nocturno:

Two Thousand Maniacs! (1964), Lewis sfrutta il tema della tortura nella sua accezione più prolifica, quella legata alla vendetta. Lewis incrocia il tema della comunità killer (ripreso negli anni ‘70 da Wes Craven e Tobe Hooper) con il film musicale di Vincente Minnelli, Brigadoon (1954), dando vita a una comunità sudista composta dai 2000 maniacs del titolo, intenta a vendicare nel sangue i massacri della Guerra di Secessione. Gli yankees di passaggio vengono uccisi nei modi più bizzarri, spesso rituali e celebrativi, ascritti a un’idea di festa paesana malata e perversa che rispecchia, in toto, le forme di tortura più conosciute. A una delle vittime, prima di essere uccisa, viene tagliato un dito e poi un arto; un ragazzo viene fatto rotolare da una collina all’interno di un barile irto di chiodi, citando così il supplizio di Attilio Regolo. Un altro yankee legato mani e piedi con delle funi a dei cavalli (uno per ogni estremità), viene smembrato quando i due animali su incitazione della folla si muovono simultaneamente in direzioni opposte.

Una delle scene cult del film ha per protagonista la versione gore di un gioco tipico dei luna park americani. Il pubblico con una palla da baseball tenta di colpire un bersaglio che, se centrato, fa cadere un’enorme roccia posta in bilico sopra la malcapitata. La rappresentazione della violenza inaugurata da H.G. Lewis diviene consuetudine a partire dagli anni ‘70. Le idee che animano la sua rivoluzione espressiva si radicano nel théâtre du Grand Guignol, teatro parigino attivo dalla fine dell’Ottocento sino agli anni ‘50 del Novecento, in cui gli spettacoli rappresentati erano caratterizzati dalla raffigurazione o rappresentazione scenica di fenomeni paranormali, torture e uccisioni. Riconosciuto come antecedente del gore cinematografico, il Grand Guignol è anche una delle passioni di Lewis che, verso la fine degli anni ‘60, aprirà un teatro tutto suo a Chicago: il Blood Shed Theatre. Questa esperienza ispira Lewis che nel 1970 realizzerà il suo film più amato dal pubblico, The Wizard of Gore, in cui si sfrutta l’ambientazione in un “teatro dell’orrore” per mostrare efferate torture e raccapriccianti delitti. Il protagonista Montag The Magnificent, infatti, è un illusionista che durante i suoi spettacoli sottopone alcune ragazze a ogni genere di supplizio. Queste, inspiegabilmente, ritornano incolumi tra il pubblico alla fine del numero, ma dopo qualche ora le ferite prodotte dal mago riaffiorano sul corpo delle malcapitate provocandone la morte. Montag, immerso in una (meta)narrazione sospesa tra reale e illusione, si diverte a infilare lame nella gola delle ragazze, a triturarne le viscere, asportare cervelli. Non solo: Lewis anticipa e ispira gran parte dell’immaginario orrorifico degli anni seguenti, mostrando l’effetto di una sega elettrica su un corpo umano…”.

 

Roberto Silvestri, sull’imprescindibile blog che cura con Mariuccia Ciotta, ci ricorda che in tempi recentissimi se n’è andato anche Al Adamson:

“Le piace trash? Se pensate che, al cinema, non si tratti solo di ‘sfruttare atti efferati per fare bei verdoni’. Se vorreste immensamente leggere il saggio di Jonathan Ross (Ubu Libri). Se diffidate di chi si scandalizza con foga integralista di questa deformazione, irreversibile ma nauseabonda, delle ‘regole auree ed eterne del bello’ – come un tempo per il camp o il kitsch – è il momento di accostarsi finalmente ai capolavori (proibiti) di due maestri Usa del ‘cinema gore e splatter spazzatura’: Herschell Gordon Lewis, il professore d’inglese che con David Friedman coltivò, senza neanche espropriare, tutti i campi della fantasia lasciati incolti dai mega-studios e scoprì l’estasi della recitazione decostruita e della sceneggiatura tagliata con l’ascia. E Al Adamson, un superindipendente il cui assassinio efferato (fu poi sepolto nel cemento del pavimento di casa che stava facendo ristrutturare) avrebbe lasciato basito Dante Alighieri a proposito di contrappasso…Del primo non possiamo dimenticare almeno Blood Feast (1963), ovvero sangue zampillante egizio, una satira dell’orientalismo tra Edward Said e Cronenberg; 2000 Maniacs, ‘2000 pazzi’ (1964), ovvero (una ferita sempre aperta zoomata in primo piano): come friggere gli yankees e mangiarseli, in ricordo e in omaggio dei caduti grigi della guerra di Secessione. E del secondo: Blazing Stewardesses (1974), con Yvonne De Carlo; Blood for Ghastly Horror, work in progress dai cento titoli e rimontaggi, su una gang di rapinatori di gioielli reduci dal Vietnam e John Carradine che, in una delle versioni, fa una capatina (1972); I Spit on Your Corpse (1974), su una gang di ragazze cattive, ma davvero. Pellicole ‘maledette’ per antonomasia, diventate ormai capolavori dell’arte contemporanea, sensori di un diffusa e sfrontata sensibilità mutante, forme che danno i brividi ma possiedono anche ‘quel certo non so che…’, fluido mortale dell’immaginario che presto si sarebbe incorporato nella body art necrofila delle scarnificate popolazioni punk…”.

 

Secondo Lars Nilsen della Austin Society:

“Lewis was a very smart, funny and well read man who was making industrial films for a living when he caught wind of the audience demand for nudist and sexploitation films, he made a few of these in tandem with producer David Friedman—theirs was a dream team of witty, energetic showmen—and when the market for skin was more than satiated, they tried something new: the gore film. 1963’s Blood Feast was the first of these, a hysterically overamplified horror film that featured lots and lots of full color blood and entrails. This was truly something new, and the market responded, especially the drive-in audiences who demanded more. Gordon responded with many more of these including the ambitious Two Thousand Maniacs (1964) and his masterpiece, The Wizard of Gore (1970), which I think we can consider a true work of art. It’s probable that without Lewis we would not have had John Waters‘s forays into bad taste land, and his aesthetic helped to define a peculiarly American strain of weirdness that has permeated music and culture since”.

 

E infine un’autorità in materia come Tim Lucas su VideoWatchdog:

“Regardless of their rough edges (and they are plentiful with their clashing colors, mechanical cinematography and toothache performances), Lewis’s films had the significant advantage of being made in the midst of the 20th Century’s most dazzling decade. Consequently, they possess a certain value as retorts to such 1960s topics as nudism (Scum of the Earth), Deep South separatism (Two Thousand Maniacs!presents an extreme South so separate from the rest of the country that it comes and goes from reality like the ghost village in Brigadoon!), the Pill (The Girl, The Body and the Pill), LSD (Something Weird), bikers (She Devils on Wheels), swingers (Suburban Roulette), automation (How to Make a Doll), juvenile delinquency (Just for the Hell of It), sexual liberation (The Alley Tramp), and political corruption (The Year of the Yahoo!). His extreme gore film The Wizard of Gore (1970), remade in 2007, even dabbled in Pirandellian illusion and subjective reality. Remarkably, of the 37 films that credit him or his screen names as director, the IMDb lists him as having produced 24, acted in and written 23, photographed 20, and provided the scores for 11—which, like his work or not, validates him as one of our last “complete” filmmakers. He seems to have done everything but edit them, but I’ll bet he had a hand in that, too”.