Gli avevamo appena dedicato il post precedente, originato dalla lunga e completa retrospettiva della Cineteca di Bologna. E ora Carlo di Carlo se n’è andato, lasciando molti di noi dispiaciuti per non averlo potuto salutare un’ultima volta, magari nella speranza di vederlo – sia pure affaticato – presentare un suo film. Per quel che può significare, a noi qui in redazione ha fatto molto piacere osservare il tam tam di ricordi, memorie, aneddoti e articoli che si sono succeduti fin dalle prime ore dopo la scomparsa. Per noi la sua figura valeva anche come testimonianza che il cinema è anche una convivenza di studio, ricerca e creatività. Carlo fu critico, ricercatore, storico, biografo e al tempo stesso regista, sceneggiatore, creatore a tutti gli effetti di un’opera vastissima. In letteratura sarebbe stato definito “poligrafo”, per noi è semplicemente un appassionato di grande talento che non c’è più.

Ci piace citare, una per tutti, Cristina Piccino, che riassume i dialoghi di molti di noi: “Capitava di incontrarlo sempre nei festival Carlo di Carlo, ai convegni, negli appuntamenti col cinema d’autore, l’aria svagata, la voce gentile, appena cantilenante con l’ accento bolognese che si era mischiato a quello della città dove viveva ormai da anni, Roma. Sembrava lì un po’ per caso, e invece la sua figura aveva attraversato il nostro cinema con una certa costanza e determinazione sin da quando era soltanto un ragazzo. Vicino a Pasolini, e a Antonioni, regista egli stesso, studioso, grande archivista e conoscitore del cinema italiano (il suo «Fondo Carlo di Carlo», con un ricchissimo patrimonio di documenti e testimonianze, è stato acquisito dalla Cineteca di Bologna), critico, curatore delle edizioni italiane di Heimat e delDecalogo di Kieslowski. Ieri Carlo di Carlo se ne è andato nella sua casa romana, era malato da un anno, eppure con quella sua delicata ostinazione che gli conoscevano gli amici e le persone con cui aveva lavorato…” (Cristina Piccino, “Il Manifesto”)…

Ma dai fondi citati esce anche questo bel testo di Renzo Renzi:

L’ho visto nascere. Non era ancora uscito dal liceo che aveva già scritto il suo primo saggio, su Charlie Chaplin. Impressionava specialmente un passo nel quale, più o meno, si diceva: “Anche Croce la pensa come me”. Poi, un passo dietro l’altro, pure Marx cominciò a pensarla come lui.
Così, quando fu certo che il vecchio di Treviri, benché zoppicando, lo seguiva bene, realizzò il suo primo cortometraggio, che si chiamava
La “menzogna” di Marzabotto. In quell’anno c’era stato un tedesco che aveva negato l’esistenza della famosa strage. Ogni tanto, ancora oggi, c’è un tedesco, più sensibile degli altri, il quale si sveglia di soprassalto, gridando: “I campi di sterminio? Non può essere vero!
L’hanno inventata loro la menzogna, sporchi deportati…”. Poi si riappisola, sognando camere a gas dove sterminare quei bugiardi.
Carlo capì questo tratto del carattere di certi tedeschi e gli girò il cortometraggio contro. Per montarlo, andò a Roma, dalla quale tornò tutto contento: “Cesare mi ha detto, Michelangelo mi ha detto, Tonino mi ha detto, anche Monica ha detto qualcosa…”.
Insomma, era entrato in un battibaleno nella grande famiglia del cinema italiano, come parente stretto dei “grandi”, da sempre.
Però, frequentando tutti quei nomi senza cognome, s’era fatta un’idea sbagliata delle cose perché s’era messo in mente il “cinema d’autore”, infatti da quel momento in poi, gli piovve addosso ogni sorta di difficoltà.
Evidentemente non bastava il nome, ci voleva anche il cognome. Allora si ricordò dei tedeschi, ai quali non aveva più cessato di pensare. La Germania era, pur sempre, anche la patria del suo allievo Marx. Sia come sia, bisogna dire che i vari Karl, Adolf, Wolfgang, Friedrich lo accolsero bene. Fu per questo che, lavorando nella loro tv, si mise, come si dice, vistosamente a “promettere”. Nel frattempo aveva incontrato anche Miklos, ma non Jean-Luc, mentre cercava di tornare nella grande famiglia del cinema italiano per far vedere, finalmente, com’era cresciuto. Ciò che accadde puntualmente nell’occasione del suo primo lungometraggio, che fu
Per questa notte, dal quale si capiva chiaramente che non si frequentano i Michelangelo e i Miklos senza trarne qualche giovamento.
Ora Carlo, divenuto Di Carlo, si accinge a girare il suo secondo lungometraggio.
Nel frattempo il cinema è morto e, più del cinema, è morto il “cinema d’autore”.
C’è da chiedersi come farà, adesso, uno sfacciato di tali dimensioni (Carlo di Carlo) a rinunciare alla condizione floreale dell’artista, per mettersi ad esercitare semplicemente una professione, alla maniera di tutti, nel mare degli audiovisivi.

P.S.: A proposito: che sia mio figlio?