Ringhia, mormora, sbuffa, urla, piange, sputa sui quadri, il Turner che Mike Leigh in persona ha presentato a Bologna per Arte Fiera e Art City Cinema. Il meritatissimo premio vinto a Cannes da Timothy Spall – da allargare all’intero cast – è solo una parte per il tutto dell’operazione biografica del regista inglese. La scelta di raccontare solo l’ultima fase della via di Turner risulta decisamente riuscita anche perché – come ha raccontato al pubblico Leigh – girare per esempio a Venezia la fase della vita in cui il pittore ha dipinto le meraviglie della città avrebbe comportato costi incalcolabili. In effetti, ci sono voluti ben 15 anni per raccogliere il budget necessario alla produzione del film, e – sia pure con finanziamenti ridotti rispetto a opere consimili nel cinema hollywoodiano – in Turner i soldi sono decisamente ben spesi.
Leigh, fedele al suo realismo delle facce e delle cose, ha voluto rispettare nel profondo la materialità della pittura: tele, colori da impastare e sciogliere, pavimenti in legno, pennelli, ciotole d’acqua, cornici e sostegni, tutto “pesa” in Turner, tutto scricchiola e cigola, fa resistenza, ci ricorda che la pittura è affare di schiene rotte, mani che dolgono e sudore che cola. Gli stessi personaggi, poi, vengono ancorati alla loro fisiologia. Non solo il Turner in versione Leigh parla (almeno nella versione originale) attraverso borborigmi, crepitazioni e sibili, ma tutt’intorno si muovono una governante con la scabbia, un padre rantolante, e una serie di figure alle prese con strampalate conformazioni fisiche e problemi di ogni tipo. Raramente si è visto un Ottocento così corporeo, materico. Ma, al tempo stesso, si fa strada a gomitate la bellezza naturale, non solo quella dipinta dal pittore (ossessionato dalle scene marittime e sempre più radicale alla fine della carriera), ma anche quella paesaggistica. Il vero colpo di genio di Leigh, in effetti, è quello di evitare la citazione pittorica fine a se stessa e mostrare una bellezza naturale che il pittore si va a cercare, viaggiando lontano dagli angusti spazi del materiale e rinvenendo i posti più belli, da poter in questo modo restituire attraverso lo sguardo dell’artista. Turner diventa così (come dimostra la simbolica sequenza del dagherrotipo) la storia dell’ultima relazione possibile col mondo, dell’ultima pittura che ancora lavora sul reale come esperienza dell’universo, prima dell’arrivo della fotografia (e del cinema).