Dal 23 al 26 gennaio si terrà la nuova edizione di Arte Fiera, l’esposizione internazionale d’arte moderna e contemporanea che puntualmente apre l’anno dei grandi eventi bolognesi. Gennaio è anche: il mese del ritorno nelle sale di Barry Lyndon; il mese dell’uscita di Turner, il nuovo film di Mike Leigh; il mese di Burton e del suo Big Eyes. In un gennaio così “pittorico”, l’epifania videoludica vien da sé: ci son videogiochi che, dal punto di vista estetico e stilistico, si sono ampiamente ispirati alle arti visive. Prima di iniziare la rassegna un doveroso disclaimer: l’elenco non è esaustivo, sicuramente qualcosa è sfuggito; non ci interessa che l’ispirazione sia dichiarata o meno; non ci riferiamo ai cosiddetti art game, definizione opinabile in cui rientra un po’ di tutto ma che in fondo significa poco.
Col suo bianco e nero fatto di contrasti, Limbo (Playdead, 2010) non nasconde un’evidente influenza espressionista. Le recensioni, all’epoca della pubblicazione, sono concordi nel riconoscere richiami estetici che spaziano dal noir all’espressionismo tedesco. Il minimalismo, anche sonoro, accompagna un’avventura che cela nell’assenza di colore un grado di gore e crudezza non indifferente. In tema di bianco e nero risulta particolarmente interessante The Unfinished Swan (Giant Sparrow, 2012). In questo caso lo schermo diventa una tavolozza bianca che aspetta solo di essere colorata dal giocatore, con schizzi di nero che rivelano l’ambiente e consentono letteralmente di creare lo spazio entro cui muoversi. Per certi versi, una metafora del concetto stesso di creazione artistica.
Rez (UGA, 2001) prende in prestito il concetto di sinestesia, tanto caro a Kandinsky: le immagini possono essere ascoltate, i colori diventano ritmo. Il nome in codice del gioco, non a caso, è Project K, e nella sua grafica vettoriale pulsante rivive indubbiamente l’astrattismo del pittore russo. Le prospettive insolite di Escher hanno invece ispirato Echochrome (Japan Studio, 2008) e Monument Valley (Ustwo, 2014): due puzzle game, neanche a farlo apposta.
Dall’Europa al Giappone. Okami (Clover Studio, 2006) mescola la tecnica digitale del cel-shading allo stile sumi-e. Il risultato ricorda le illustrazioni a inchiostro su carta di riso tipiche dell’arte pittorica giapponese. Anche Tengami (Nyamyam, 2014) si rifà alla tradizione nipponica: la fisicità della carta è protagonista di un gioco la cui narrazione procede sfogliando le pagine digitali di un libro pop-up. L’importanza dei materiali è evidente in The Dark Eye (Inscape, 1995), un’avventura horror che consente al giocatore di rivivere in prima persona tre racconti di Poe. Nei personaggi, fatti di plastilina, si legge l’intenzione di dare consistenza alla non-materia digitale. Ulteriori esempi, in tal senso, sono numerosi, ma si rischia di andare fuori tema. Procediamo oltre.
Apotheon (Alientrap, 2015) deve ancora essere pubblicato, ma a giudicare dai filmati è evidente l’intenzione di legare contenuto e forma. Il titolo si ambienta nell’Antica Grecia e la grafica richiama con evidenza le decorazioni dipinte sulle antiche ceramiche elleniche.
Questa breve panoramica si conclude con Vib-Ribbon (NanaOn-Sha,1999). In questo rhythm game giapponese in grafica vettoriale, una linea bianca su sfondo nero prende vita e forma di coniglio e cammina su scenari che cambiano aspetto in base al CD musicale inserito. Lo stile ricorda quello di un’altra famosa linea, quella dell’italiano Osvaldo Cavandoli.
Andrea Dresseno