Il lungo aprile del cinema francese al Lumière si apre con la retrospettiva dedicata a Olivier Assayas, probabilmente il più significativo esempio della cinefilia contemporanea dai tempi dei Cahiers du Cinéma. Oltre a una carriera prolifica e geniale, troppo poco conosciuta in Italia, Assayas ha sempre scritto, prima durante e dopo aver fatto il salto dietro la macchina da presa. Tra i primi a scoprire il cinema orientale (Corea e Hong Kong in particolare, tanto amato da aver avuto una lunga relazione sentimentale con Maggie Cheung), Assayas ha lavorato su Fassbinder, Visconti, Warhol, Cassavetes, Godard e Debord. Espressione di un cinema visto che si riversa interamente nel cinema fatto, la filmografia di Assayas è in continuo divenire. Qui un bel saggio di Christian Raimo su Qualcosa nell’aria, e qui la top ten di tutti i tempi secondo l’Assayas critico. E dopo il salto, il testo della lezione che il regista francese tenne alla Cineteca di Bologna nel 2000.
OLIVIER ASSAYAS
Imparare in modo difficile
Non ho frequentato scuole di cinema, ma ho cominciato studiando letteratura e pittura. Questo
mi ha fornito una visione poetica e astratta, che può aver motivato il mio approccio
intellettuale. Allo stesso tempo, ho appreso molto lavorando sui set cinematografici, facendo
cose pratiche come preparare il caffè e portare le attrezzature. Questa esperienza mi ha portato
a considerare il cinema come un processo molto semplice, “terra terra”. Mi sono messo a girare
cortometraggi. Ho preso a prestito piccole somme di denaro da mio padre e ho realizzato film
molto piccoli, di scarsa qualità. Ho imparato nel modo più difficile, ma credo di averlo fatto in
maniera davvero globale. Fin dall’inizio, ho avuto la convinzione che portare le luci o i
macchinari facesse parte del percorso creativo quanto scrivere o interrogarsi sulle nozioni di
spazio e di messa in scena. Essenzialmente, ho imparato tutto subito, ma in definitiva non ho
imparato nulla. In un certo senso, è un handicap. Non ho mai appreso il funzionamento degli
strumenti principali, quindi non posso adoperare la cinepresa da solo. Ma non voglio saperlo
fare, non l’ho mai voluto. Conosco bene, invece, una nozione molto astratta: ciò che significa
girare un film alle mie condizioni. Tutti i miei lavori sono nati da un approccio specifico,
intuitivo, sperimentale, alla scoperta di cosa è per me il cinema. Sono fortemente convinto che
ognuna delle cosiddette verità che vengono insegnate sia relativa. Io ho imparato a realizzare
opere particolari, assolutamente mie. Spero che, allo stesso modo, le generazioni future
facciano film personali, diversi da tutto ciò che viene insegnato, in grado di gettare nuove basi
per il cinema.
Catturare il momento
Come la maggior parte dei registi autodidatti, ho dovuto trovare un modo tutto mio di lavorare
con gli attori. Ho capito molto presto che, per quanto io potessi essere vivace, interessante ed
emozionante con la macchina da presa, questo sarebbe stato nulla, in definitiva, a paragone di
quanto accade sui volti degli attori. Essi sono l’incarnazione di un film. La cosa più bella e
degna d’essere vissuta nel cinema, per quanto sfuggente e quasi invisibile, è il modo in cui si
riesce a catturare sui volti una qualche verità, nella complessità delle emozioni umane.
L’aspetto più importante è cercare di cogliere quei momenti magici in cui gli attori dimenticano
di essere tali e semplicemente vivono un attimo particolare. In alcuni dei miei film riesco a
riconoscere il momento che dà valore a tutto il resto. È qualcosa di estremamente personale,
misterioso, magico. Il cinema è l’unica arte che può cogliere le cose dal profondo della natura
umana. Per questa ragione considero gli attori delle persone reali, che io sto guardando. Non li
scelgo per la loro abilità a ricreare una particolare emozione, come fossero artigiani. Lavoro
con interpreti che in qualche modo somigliano al personaggio, ma che sanno anche andare al di
là, superarlo, apportare qualcosa di più prezioso e importante rispetto a ciò che avevo in mente
all’inizio. Consegno il personaggio all’attore, con la speranza che arrivi a conoscerlo e ad
interpretare le sue emozioni meglio di me. È questa fiducia che mi permette di osservare le cose
con sguardo naïf. Per fare film devo essere capace di credere in ciò che vedo. Devo aiutare gli
attori a creare momenti di verità. Tutto il resto è arte, tecnica, idee, varie nozioni che vanno
comprese perché bisogna pensare a ciò che si sta facendo.
Lavorare a partire da un foglio bianco
Mi trovo ad uno strano punto delle mie riflessioni sul cinema e sulla regia. Attualmente sento di
avere molte più domande che risposte, molti più dubbi che verità, per quanto parziali. I dubbi
sono nati durante l’esperienza del mio ultimo lavoro. Si tratta di un film storico ambientato
all’inizio del secolo, completamente diverso da ciò che ho fatto in passato. Per la prima volta,
ho girato all’interno dell’establishment cinematografico. Ho usato attori molto famosi, almeno
in Francia, ottenendo un discreto successo commerciale. Per me si è trattato comunque di
un’esperienza a parte. Certamente, non è questa la direzione in cui voglio andare. È stata una
sorta di parentesi. Il film può essere considerato convenzionale a molti livelli, ma per me
significava prendere in mano alcuni temi classici e sperimentare, scoprendo fino a che punto
sarei riuscito a tirare fuori qualcosa. Credo che le convenzioni siano esperienze di base
condivise da tutti. Ero convinto che il film avrebbe dovuto contenere, a modo suo, ciò che
appartiene al cinema classico: emozioni semplici, universali, essenziali. Sentivo davvero la
necessità di guardarmi indietro e ricollegarmi in modo specifico al passato. Ora, però, provo un
bisogno reale di tornare al cuore del mio lavoro di regista: questo significa confrontarsi con la
realtà ed il mondo moderni, per fare cinema moderno. Non voglio riallacciarmi a progetti
precedenti o rispolverare le mie vecchie idee sul modo di fare film e sullo scopo del cinema.
Desidero però capire la sostanza del cinema contemporaneo, riflettere o cercare di immaginare,
senza limiti, confini o frontiere, ciò che il cinema dovrebbe essere adesso, dove dirigersi, dove
osare.
Il divario tra il cinema mainstream americano e quello indipendente
Nutro la profonda convinzione che al giorno d’oggi ci sia qualcosa di molto errato nella
percezione generale del cinema. Immagino che la situazione italiana e di altri paesi sia simile a
quella francese, se non peggiore. L’industria cinematografica americana è molto potente e
produce un vastissimo numero di film che riscuotono sempre più successo internazionalmente.
Tuttavia, c’è un paradosso, in quanto questo sistema industriale tanto potente ha un effetto
disastroso sulle culture locali, ma allo stesso tempo crea un prodotto potenzialmente molto
eccitante sul piano estetico ed intellettuale. La maggior parte dei film hollywoodiani ha delle
premesse interessanti, che però non vengono portate a termine. Ad un certo punto si perdono,
scivolando nel convenzionale. Come regista, a volte trovo quei film incredibilmente stimolanti
e provocatori a livello visivo, e percepisco un’ambizione e un’energia che spesso manca al
mondo dei film indipendenti. Sono spaventato dal divario crescente tra ciò che accade nel
cinema americano, che i cinefili classici non sanno definire in modo soddisfacente, e ciò che
accade nel cinema indipendente, che da un punto di vista formale può spesso essere
incredibilmente piatto e accademico. Da una parte abbiamo un “pubblico dei pop-corn” e
dall’altra un pubblico sofisticato, intellettuale, di buon gusto, che non guarda la televisione,
legge libri e giornali, va a teatro, e in qualche modo accetta il cinema classico, indipendente,
raffinato. Ma non è questo il motivo per cui voglio fare film. Ho abbandonato le arti plastiche,
la pittura e la grafica per il cinema, perché pensavo che quest’ultimo fosse più forte e avesse in
qualche modo un impatto sociale. Tuttavia, ora c’è una situazione estremamente negativa, in
quanto il cinema d’avanguardia, che dovrebbe essere moderno ed ambizioso, sta perdendo il
suo legame col pubblico cinematografico più interessante, quello giovane. Non soltanto i
giovani borghesi, ma quelli di ogni classe. La gente ora usa l’espressione “cinema
indipendente”, in quanto “cinema d’autore” suona come qualcosa di vent’anni fa, un concetto
moribondo, agonizzante. Ma anche il cinema indipendente sta invecchiando e diventando
borghese. Credo che oggi ci sia bisogno di qualcosa di completamente diverso, un nuovo modo
di immaginare ciò che il cinema indipendente può o deve essere, se vuole sopravvivere, perché
è questa idea a costituire una delle cose più preziose di questo mestiere. I film indipendenti
rappresentano la fiducia in un cinema che può essere qualcosa d’altro rispetto ai programmi
televisivi o alle immagini da consumare passivamente. Il cinema è lo strumento più potente e
affascinante che abbiamo per comprendere il mondo in cui viviamo e per trasmettere agli altri
ciò che capiamo e ciò in cui crediamo. Il cinema è l’arte principale del nostro tempo. È
fondamentale che questo concetto non venga travolto o distrutto dall’industria, che si sta
espandendo in tante direzioni, assorbendo e distruggendo quello che il cinema indipendente
rappresenta in vari stati europei. Credo che, se le cose non cambiano, ci dirigeremo verso una
situazione in cui le cinematografie nazionali (in Italia, Francia, Germania ecc.) diventeranno
una minoranza all’interno dei loro stessi territori. Da un lato c’è Hollywood come industria
dell’intrattenimento globale. Ma se ogni cultura europea perderà il contatto con la principale
arte del nostro tempo, andrà in fumo qualcosa di essenziale.
La struttura economica
Nel cinema, la cosa difficile è trovare denaro, finanziamenti, sostegno. I film che cercano di
essere nuovi, di imporsi come prototipi, fanno sempre più fatica a reperire i fondi. In Europa, o
quanto meno in Francia, è la televisione a regolare i finanziamenti. È una logica brutale: se il
film non può essere trasmesso in TV alle 8.30, il budget sarà ridotto. Il pubblico televisivo non
è interessato a vedere film stimolanti e provocatori. Il risultato è piuttosto paradossale, ironico.
I film fatti specificatamente per il grande schermo, quelli per cui si paga il biglietto, sembrano
più economici. In generale, si guadagna meno che in TV. Sempre più di frequente, per ottenere
finanziamenti, è necessario vendere alla TV i diritti sul soggetto cinematografico. Come se il
soggetto fosse il film stesso, mentre in realtà è soltanto il punto di partenza, che dev’essere
sviluppato per diventare un film. È piuttosto difficile sopravvivere in un sistema che non vuole
prestare attenzione a questo tipo di problemi. La maggior parte delle persone vuole vedere
opere realizzate secondo un modello abituale, repliche di quanto è già stato fatto. Penso che
questo indichi una specie di morte o annullamento, una sorta di impossibilità ad affermare ciò
in cui una generazione crede. Ogni generazione, invece, dovrebbe portare avanti qualcosa di
artisticamente personale. È molto complesso, ma al tempo stesso emozionante. Ed è uno dei
problemi essenziali del cinema contemporaneo di tutto il mondo.
Scrivere il film
Ogni regista tratta gli aspetti pratici del suo lavoro in modo differente, ma le domande sono
sempre le stesse. Posso riassumere la specificità della mia esperienza concreta, che si è formata
gradualmente, solo parlando del mio metodo di lavoro, strettamente connesso al concetto di
scrittura. Il soggetto è, in ultima analisi, lo strumento principale per ottenere finanziamenti, e
persino per decidere se il film verrà realizzato o meno. Ho sempre pensato che sia un
meccanismo completamente sbagliato. Ho una lunga esperienza di soggettista: mio padre era
sceneggiatore e ho cominciato ad aiutarlo all’età di vent’anni. Non ho mai pensato al soggetto
come ad una forma di scrittura seria. Il concetto della scrittura per il cinema va collocato
all’interno del film, proprio come uno scrittore fa con un romanzo. È un processo che comincia
quando viene concepita l’idea e termina il giorno in cui è pronta la prima copia. Scrivere
significa aggiungere una parola qua e una là. Significa sviluppare un personaggio, eliminare un
paragrafo, cercare di infondere il massimo di vita in un corpo pulsante. I film non sono scritti,
accadono. La narrazione (e non mi riferisco ai suoi tratti superficiali, bensì al cuore del film)
cambia nel corso di tutte le fasi del suo sviluppo. I film diventano ciò che sono attraversando un
processo che deve mantenersi creativo fino all’ultimo. Nella maggior parte dei miei lavori,
includo elementi un po’ improvvisati. Voglio che gli attori intervengano con una parte di loro
stessi, per rimettere in gioco le cose, aggiungere una prospettiva diversa rispetto alla mia.
Questo è molto stimolante per me, poiché in qualche modo contribuisce a creare un senso più
ampio. C’è un’enorme differenza tra il cinema che illustra alla perfezione un soggetto e quello
che cerca di cogliere alcuni aspetti della vita. Quest’ultimo va di gran lunga contro la tendenza
generale e l’attuale logica dei finanziamenti.