Con l’anteprima stampa di “Amy” di Asif Kapadia sono cominciate le proiezioni del Biografilm, che Cinefilia Ritrovata seguirà continuativamente, come fa con tutti i festival che si tengono al cinema Lumière. Il film, presentato a Cannes poche settimane fa e giunto qui a Bologna ben prima della sua uscita internazionale, ha già fatto molto parlare di sé, anche perché Amy Winehouse non è stata solo l’ultima delle star della musica internazionale morta troppo presto, ma anche l’unica ad essere completamente estranea al mondo del pop-rock, data la sua influenza jazz e la sua capacità di esplorare musiche come soul o rhythm and blues di solito poco accreditate per lo stardom di massa.Possiamo affermare da subito che Amy è un film profondamente scisso. Kapadia, autore di un non eccezionale Senna nel 2010, compie due percorsi collidenti e reciprocamente incongruenti. L’idea migliore è quella di raccontare Amy esclusivamente attraverso materiale d’archivio: si va dagli home movies ai filmati girati dall’entourage durante i tour, dal footage ufficiale alle fotografie dei paparazzi, dalle interviste a materiali audio in voce off. Nulla viene mostrato al di fuori di questo (e se Dio vuole ci vengono risparmiate le solite interviste con l’illuminazione off da tre quarti).
D’altra parte, però, Kapadia non riesce a tenere a freno una dimensione narrativa insistente e spesso retorica, dove i passaggi più bui della vita privata di Amy Winehouse vengono sottolineati da musiche cupe e minacciose, le vicende sentimentali legate ai testi delle sue canzoni, e più in generale non si riesce – a fronte di tutto questo archivio – a farci capire nulla delle origini, della prassi, degli strumenti con cui il talento di questa straordinaria artista è potuto emergere. E i problemi di salute e di dipendenze di Amy pian piano divorano tutto il film, come se questo fosse la risposta – sia pure pietosa e sincera – alla curiosità dei fan e dei media.
Il ruolo poco protettivo del padre (vera eminenza melodrammatica dell’opera di Kapadia), e la responsabilità di molti dei protagonisti più controversi della vita di Amy sono anch’essi un po’ duplici: da una parte capiamo meglio quel che è avvenuto (una giovane donna fragile, impreparata al successo e non difesa da chi avrebbe dovuto proteggerla), dall’altra Kapadia fa sempre in modo di non affondare troppo il coltello nella piaga, forse anche per non incorrere in strascichi legali. Lo spettatore, tuttavia, è perfettamente in grado di farsi un’idea di quel che è avvenuto.
Linguisticamente, dunque, Amy vive della scommessa sui materiali, ma non accede certo a una sua “cinematograficità”, che anzi stenta a emergere, sebbene nessuno possa onestamente affermare che il film equivalga a un qualsiasi documentario televisivo minore.