Małgorzata Szumowska, autrice polacca vincitrice dell’Orso d’argento per la miglior regia al Festival di Berlino 2015 approda a Bologna nella sezione Biografilm Europa con la sua ultima opera, Body. La vicenda ruota attorno a tre personaggi. Janusz, procuratore che si trova a investigare su svariati casi, tra cui un infanticidio. Olga, la figlia, affetta da un disturbo alimentare odia il padre che ritiene responsabile della morte della madre. Anna, la terapista, sostiene di avere la capacità di mettersi in contatto con l’aldilà.
Il film ha un buon avvio: la presentazione dei personaggi in alternanza fornisce un’idea generale della storia che ci si appresta a vedere, l’assenza di musica extra diegetica conferisce drammaticità e dona alle immagini lo spessore che la storia sembra richiedere. Janusz ha a che fare quotidianamente con morti ammazzati e questo, unito al trauma della perdita della moglie, lo porta a fare un uso sconsiderato della vodka e divorare cibo in modo frenetico, viscido, quasi grottesco.
Tutto ciò è contrapposto al problema alimentare di Olga, anch’essa ingurgita quantità di cibo eccessive per poi vomitare tutto, come se il suo problema fosse portato dalla repulsione e lo sdegno che le crea la figura paterna. Tutti e due, in maniere diverse, non hanno cura del proprio corpo, pensano a se stessi e dimostrano incapacità comunicativa. Il personaggio forse più interessante è Anna. È fotografata nella propria quotidianità, grazie a una serie d’immagini in sequenza, comprendiamo il suo modo di lavorare, le sue abitudini e la devozione verso quell’enorme cane con cui divide anche il letto e che contribuisce a renderla il vero elemento ironico del film. È una persona sola e anch’essa ha subito una grave perdita in passato. Se però suscita riso e goliardia in fase iniziale, man mano che la storia avanza emerge il suo dramma personale. Lei, a differenza di Janutsz e Olga, ha cura del proprio corpo, ma non lo mostra, lo nasconde in modo molto casto, quasi a volerlo rifiutare dopo il lutto subito. È un personaggio senza legami, non si hanno notizie aggiuntive del figlio e non viene mai citata la figura del marito.
Tutto ciò unirà il destino dei personaggi. Esaurita l’illustrazione delle dinamiche relazionali tra i tre, la narrazione però si arena, perde di potenza, tralascia l’approfondimento e l’indagine dei problemi ad essi legati per favorire una successione di eventi deboli e a volte ingiustificati che veicoleranno la storia verso una conclusione lontana da quello che si prometteva al punto di partenza. Diventa didascalico sia su un piano discorsivo che di linguaggio, non basta la buona fotografia fatta di forti luci naturali che inondano le stanze, inquadrature simmetriche e piuttosto statiche per conferirgli la forza drammatica di cui avrebbe bisogno.
Forse è proprio questa rigidità a limitare il film, che poteva essere qualcosa di più, invece descrive in modo non troppo approfondito i tre personaggi e i rispettivi problemi senza mai interessarsene veramente. A detta della regista le intenzioni erano di mettere in piedi un’opera a metà tra il dramma e la commedia, infatti si piange e si ride, ma si ha anche l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di non ben definito. Siamo in presenza di buone idee e buoni mezzi, che però non sono riusciti ad entrare in modo organizzato e chiaro nel tempo del racconto.
È un film pieno di buone intenzioni, ha degli spunti molto interessanti e a tratti dimostra abilità nel maneggiare il mezzo audiovisivo, ma in sostanza è come l’urlo strozzato in gola che non riesce a uscire forte e chiaro dai gracili corpicini delle ragazze in terapia che Anna cerca di educare a esprimere se stesse.
Stefano Careddu