Dopo l’Orso d’oro a Berlino, Patricio Guzmán porta al Biografilm il suo ultimo documentario El botón de nácar. In quest’opera l’acqua è elemento fondante, produce suoni, possiede un’anima, diventa musica della natura che manifesta la sua forza e la sua bellezza. È il filo che collega lo sterminio dei Selknams, popolazione nativa americana distrutta dai colonizzatori e l’eccidio compiuto dall’esercito di Pinochet ai danni dei sostenitori di Salvador Allende. Queste due terribili ferite perpetrate dalla crudeltà umana sono ancora aperte e vengono messe in contrapposizione con la purezza della natura tramite un uso sapiente dell’elemento sonoro il quale invade la narrazione e dona grande potenza suggestiva alle immagini.
Sebbene dedichi la prima parte del film all’universo indigeno, totalmente estraneo alla società europea, in cui parole banali come Dio e Polizia sono estranee e il culto principale è la vita in armonia con la natura, il grande interesse di Guzmán è la storia più recente, il momento in cui la bestialità umana si ripete e l’esercito di Pinochet imprigiona, tortura e uccide i dissidenti del regime gettando barbaramente i corpi in mare, legandoli a pezzi di rotaie, in modo che non possano essere recuperati, impedendo “ai morti di morire e ai vivi di continuare a vivere”.
Viene detto che l’acqua possiede una memoria, proprio quella memoria che è negata alle persone care e ai familiari delle vittime. Questa può farsi testimone dei crimini e delle brutalità umane di quei diciassette anni di sterminio e repressione di massa che distrussero la vita sociale di un Paese, fino a quel momento tra i più democratici di tutto il continente americano.
Guzmán era presente in sala e rispondendo ad alcune domande, ha raccontato di prediligere un modus operandi lento e ragionato, sostenendo che la realizzazione di un film richiede una lunga riflessione. Ha intrapreso un lungo viaggio in terre, colme d’acqua e vulcani che gli ha permesso di trovare la giusta serenità, “percepire il pianeta” e godere della solitudine necessaria alla realizzazione del documentario.
Il film affianca due soprusi collocati in epoche distanti, mostra quanto siano assimilabili l’un l’altro e dipinge momenti storici che poche persone in Cile hanno interesse a ricordare, preferendo non sapere, chiudendo il passato in un cassetto e buttando via la chiave. Le parole del regista non sono però totalmente pessimiste, non vede solo voglia di dimenticare, ma riconosce la presenza di una piccola realtà giovane che dimostra di comprendere l’importanza della memoria per superare e non permettere che tutto questo accada nuovamente.
Stefano Careddu