20 Dicembre 1989, Panama. L’esercito statunitense mette in atto l’operazione Just Cause e invade il Paese con lo scopo di deporre la dittatura militare di Manuel Noriega. Il generale panamense (inizialmente supportato dalla CIA) entrò in conflitto con gli USA in seguito alla circolazione di notizie che lo vedevano coinvolto in traffici illeciti, l’azione militare ne fu la conseguenza. Noriega tentò la fuga e in seguito si rifugiò presso l’ambasciata Vaticana prima della resa definitiva. Durante l’invasione (come spesso accade) furono i civili a pagare il conto più salato: secondo gli Stati Uniti i morti tra la popolazione si limitarono a poche centinaia, mentre fonti panamensi ne riportano alcune migliaia.

Le truppe americane attuarono un’operazione degna del miglior film di guerra: i testimoni raccontano di attacchi aerei accompagnati da musica rock ad altissimo volume, testi scelti con cura per far uscire allo scoperto il dittatore. Tutto ciò rimanda a Wagner e alla celebre sequenza di Apocalypse Now, ma qui si tratta di realtà storica e tramite le testimonianze si percepisce un terrore che va ben oltre la messa in scena cinematografica.

Abner Benaim per la prima volta porta nel suo Paese una nomination agli Oscar costruendo un’eccellente pellicola che intende distanziarsi dal taglio sobrio e formale del documentario standard, prediligendo riprese in esterni e limitando al minimo l’uso di musiche a effetto alle quali un certo tipo di cinema ha abituato. La messa in scena non è nascosta, il film sembra un grande backstage in cui microfoni, operatori e il regista che esclama “Azione!” entrano nella diegesi. Questo lavoro sfocia nella costruzione di alcuni quadri che si fanno metafore della distruzione, come fossero fotografie atte a scolpire nella storia ciò che con troppa semplicità vuole essere lasciato alle spalle.

Il film riesce a rendere bene il caos e l’inferno di quelle giornate di fine anni ‘80 immergendo lo spettatore nella paura, raccogliendo ricordi di svariate persone provenienti da diversi strati sociali, provando a creare un  documento definitivo che possa veicolare il ricordo di tanta efferatezza negli anni a venire.

Come troppo spesso accade quando si tratta di fatti di sangue e momenti bui, a distanza di anni sorge un problema, quello della memoria. Oltre ai numerosi intervistati esiste una cerchia di persone che rifiutano il ricordo, le cui ferite bruciano ancora troppo per costringere la mente a tornare indietro e raccontare le esperienze personali. Questo si ripercuote in negativo sulle nuove generazioni che non hanno coscienza storica dell’accaduto, se non per sentito dire. Altrettanto avviene per quanto riguarda l’opinione pubblica mondiale: il regista incontra alcuni turisti tedeschi che non conoscono minimamente cosa sia avvenuto in quel “lontano” dicembre ’89.

Benaim prende la macchina da presa, la porta in strada, fotografa la realtà panamense odierna cercando di coinvolgere la popolazione in un documento che vuole farsi memoria collettiva di un Paese, ritratto di una cultura e ricordo indelebile di un sopruso verso persone inermi e innocenti.

Stefano Careddu