Non poteva essere più dolce l’addio di Albert Maysles al cinema. Il film su Iris Apfel, “starlet geriatrica” (come lei stessa si definisce), icona della moda ultranovantenne, spirito libero e caustico, inventrice di stili vitale e insoddisfatta, interior designer e collezionista imprevedibile, musa vivente della New York più “arty”, è un congedo sereno e buffo alla vita da documentarista. Maysles è morto il 5 marzo di quest’anno, a Manhattan, assistito dall’affetto dei famigliari e già consapevole che Iris sarebbe stato il suo addio alle scene (sebbene Transit, cui stava lavorando al momento della morte, vada considerato l’ultima opera).

E anche se qua e là Iris sembra divagare, giracchiare a vuoto, limitarsi a un controcanto timido alla prorompente personalità della Apfel, ebbene tutto questo è semplicemente l’ultima lezione di Maysles, che sottopone il suo sguardo al soggetto di volta in volta prescelto. Non si può volere male a questo film. Non si può chiedere a un documentarista di imbrigliare, o peggio decostruire Iris Apfel. La si può solo guardare oggi, come ieri, nel suo modo di vestire, gestire, e parlare, che nulla ha perso – se non un po’ di energia fisica – della curiosità e della indipendenza intellettuale della donna che ha ripensato il consumo di moda metropolitano.

E la Apfel è diventata imprenditrice di se stessa, ha imposto l’idea che le mode vanno anticipate e non subite (tanto, dice lei, qualsiasi cosa “torna di moda prima a poi, purché si riesca a vivere abbastanza a lungo”), ha mescolato accessori da mercatino con l’alta moda, e avuto una perfetta coscienza di quel che si può definire un’icona – a cominciare dalla formidabile serie di occhiali tondi che ne hanno scolpito la figura. Maysles allora la segue, la pedina, la racconta nei suoi contesti più consoni – la sua casa e i negozi, prima di tutto –, ne descrive con affetto il marito centenario e docile, si affianca a lei durante ricevimenti e incontri, finendo col sorseggiare un thè tra reduci di un momento artistico irripetibile.

È Iris, per noi, il vero grande film sulla vecchiaia di questa stagione cinematografica. Perché Maysles gira in fondo anche un film su se stesso, comprendendo e comprendendosi nel progetto, finendo nell’ultima sequenza davanti alla macchina da presa, visto che dietro – almeno in questo mondo – non ci tornerà più, e dunque congedandosi insieme alla vecchia amica dal suo pubblico di affezionati cinefili.

Roy Menarini