Dopo la consacrazione di Dallas Buyers Club e la tiepida accoglienza di Wild, il canadese Jean-Marc Vallée nel suo ultimo film, Demolition, si occupa di una delicata tematica ampiamente trattata  al cinema: l’elaborazione e il superamento del lutto. Jake Gyllenhall interpreta Davis, agente finanziario di discreto successo che rimane vittima di un incidente stradale. Se la cava solamente con qualche graffio, mentre la moglie Julia, che era al volante, muore. Davis non sembra soffrirne particolarmente, in fondo già le poche immagini durante gli attimi immediatamente precedenti al fatale scontro facevano presupporre tensioni o perlomeno una certa superficialità nel loro rapporto. La conoscenza di un’altra donna, Karen Moreno (Naomi Watts) e del problematico figlio adolescente, tormentato da dubbi sulla propria sessualità, lo aiuteranno a risolvere quel conflitto interiore, quella staticità da cui è afflitto per tutto il film.

Davis è un uomo divenuto incapace di esprimere emozioni, ha perso interesse nella maggior parte delle cose e l’apatia seguente al terribile evento lo sprona a cercare una via per ricominciare a sentire emozioni e dolori, al punto da provare un perverso piacere quando un chiodo gli si conficca in una scarpa e da farsi sparare addosso indossando un giubbotto anti proiettile. Col passare del tempo cresce in lui la convinzione che se una cosa ha un problema bisogna smontarla pezzo per pezzo, per comprenderne meglio il funzionamento, così da poterla riparare: le sue “vittime” sono una porta cigolante, una lampada che va ad intermittenza, un frigorifero gocciolante e un computer difettoso, tutte allusioni al proprio animo malato, ormai incapace di provare ed esprimere sentimenti in modo sano e normale. Ma anche questo sembra non portarlo da nessuna parte. Forse la completa distruzione di quello che tempo addietro fu il nido d’amore, suo e di Julia, potrà aiutarlo a lasciarsi alle spalle il passato e in qualche modo lo farà, innescando una serie di eventi che accompagneranno lo spettatore all’idillio finale.

Tanta, troppa carne al fuoco, in un film che spreca i buonissimi spunti, mescolandoli in modo frammentario e poco coerente, nonostante la confusione della messa in scena sia in parte voluta, cercata dal regista per restituire visivamente e narrativamente la precaria condizione di Davis. Inoltre la concatenazione degli eventi spesso è portata avanti in maniera superficiale, forzata, messa al servizio di quei pochi snodi solidi e obbligati che permettono al film di non crollare vertiginosamente a terra. Si riconosce sicuramente l’intenzione di voler raccontare una storia controversa, un sentimento intimo, difficile da rappresentare, dando però l’impressione di cercare a tutti i costi una reazione emotiva commossa nello spettatore e non raggiungendo mai quella profondità che la tematica avrebbe meritato.

Stefano Careddu