Presentato in anteprima mondiale al Biografilm, il film Segantini, ritorno alla natura di Francesco Fei ripercorre la vita del pittore trentino, mettendone in luce gli aspetti umani e artistici. Giovanni Segantini è interpretato dall’attore Filippo Timi.

Ci spiega i motivi di una scelta registica come la sua di alternare parti di documentario (le interviste alla nipote e agli esperti di Segantini) ad inserti di fiction? In particolare, la scena in cui Segantini guarda le sue opere all’interno del museo, sembra essere la più rappresentativa di questa particolare modalità narrativa. 

L’idea iniziale era quella di realizzare un prodotto per la televisione (modello BBC, per intenderci). Durante la lavorazione, però – e grazie ad una consultazione con Filippo Timi  –  ci siamo detti che poteva diventare qualcosa di diverso, un prodotto cinematografico per l’appunto. Inoltre, le parti televisive che si vedono nelle produzioni inglesi sono in genere abbastanza standardizzate; noi, al contrario, abbiamo cercato di lavorare in un’altra direzione. La scena del bacio tra Segantini e la modella, ad esempio, è molto “cinematografica”. Anche la mia reale, personale ambizione è quella di fare cinema; mi piace l’idea che con questo film avvenga una sorta di identificazione Timi-Segantini e per il futuro, qualora si voglia riprendere il soggetto del film, chissà…Riguardo la scena a cui lei si riferisce –  una delle ultime del film  – l’esperta d’arte Quinac ci aveva detto che, in realtà, Segantini non entrò mai in un museo a rivedere le sue opere. Ma, al di là dei fatti reali, noi abbiamo pensato che questa scena poteva funzionare cinematograficamente; insomma, l’abbiamo considerata come una sorta di “licenza poetica”.

Il legame tra Segantini e il paesaggio naturale è una delle chiavi di questo film, realizzato anche grazie al sostegno della Lombardia Film Commission? È stato realizzato un percorso turistico sui luoghi di Segantini? O meglio, siamo nell’ambito del cineturismo?

Questo film nasce essenzialmente da una passione personale per l’opera di Segantini; non potrò mai dimenticare la prima volta che a Milano ho visto il quadro L’Angelo della Vita. Anche se il fenomeno del cineturismo è abbastanza di moda in questi ultimi anni, ci tengo a dire che questo non è un film su commissione. La Film Commission lombarda, insieme alla Provincia di Trento e il Comune di Arco,  ha sostenuto la validità del progetto, perché si voleva raccontare la vita di un artista che ha vissuto a Milano ed è quindi milanese di adozione. In realtà, in Lombardia abbiamo girato solo in Brianza e all’Accademia di Brera. Per le riprese  dei paesaggi, il contributo maggiore sarebbe dovuto arrivare dalla Svizzera. Infatti, se un giorno si dovesse riprendere il soggetto, si dovrebbe pensare ad una co-produzione svizzera.

Le musiche nel film hanno un ruolo determinante, poiché hanno la funzione di raccordare un montaggio che include stili narrativi diversi. Come mai ha pensato a musiche originali piuttosto che a  musiche già composte?

Il mio primo lavoro si intitolava Onde, ed era molto particolare dal punto di vista dell’utilizzo delle musiche e del suono; inoltre, in passato, ho fatto anche molti videoclip. Tutte queste esperienze mi hanno portato a pensare che la musica in un film non debba essere un mero accompagamento alle immagini. Quando ho parlato con Alberto Turra, il compositore delle musiche del film, sapevo già che il risultato finale sarebbe stato molto interessante e particolare visto che Turra lavora con generi musicali come il progressive e il rock. L’idea era di evitare la classica colonna sonora di taglio televisivo, oppure quella di seguire una strada più didascalica (avremmo potuto inserire le musiche di Donizzetti, visto che Segantini era un suo ascoltatore appassionato). Definirei molto panica l’interpretazione di Filippo Timi, tanto è vero che il titolo che avevamo dato al film era, in un primo tempo, Il panico sentire. Con Timi abbiamo pensato che anche le musiche avrebbero dovuto contribuire a regalare questo senso di panismo; diciamolo, anche un po’ rock.

Nel film il personaggio-attore Timi è visto spesso nell’atto di scrivere, leggere, o pensare silenziosamente in contemplazione della natura. E’ stato importante studiare Segantini attraverso i suoi scritti, oltre che attraverso le sue opere pittoriche?

Assolutamente si. Segantini era quasi analfabeta e le sue lettere e le prime corrispondenze sono in molti punti sgrammaticate. Però, anche se non era completamente in possesso della lingua,  Segantini riusciva ad essere – per usare un aggettivo a cui tengo molto per questo film  – molto panico ma anche romantico, appassionato.

Nel film la storica dell’arte Quinsac mette in connessione il dipinto Alla stanga con il cinema attraverso l’intervento di un’operazione di regia: Segantini avrebbe messo in posa, per diversi giorni, uomini e animali ritratti. Come cambia essere il regista di un film che parla di un artista che ha fatto pratica di fotografia, ma che non ha mai conosciuto il cinema?

Ha cambiato molto. L’idea è stata, fin dall’inizio della realizzazione del progetto, quella di riscattare la figura di Segantini da semplice autore di paesaggi a grande innovatore pittorico, divisionista, simbolista. Segantini è stato un’artista pienamente moderno, che ha dato un grande impulso alla cultura del Novecento. Penso che raccontare la storia di un pittore significa necessariamente avere una cura particolare per la fotografia del film; c’è stato, infatti, un grossissimo lavoro di postproduzione, anche rispetto al budget di partenza.

Il tratto pittorico del divisionismo può essere considerato l’antesignano del pixel. Durante la realizzazione del film, ha pensato alla questione di un rapporto possibile tra lo stile registico del film e lo stile pittorico dell’opera d’arte?

Certamente si, anche se per il nostro film abbiamo puntato molto di più sulla forza dei quadri e sull’interpretazione di Timi, cercando di essere più realistici possibili senza nessun tipo di artificio di postproduzione.  Volevamo che la narrazione scorresse più naturalmente possibile e che la voce, i pensieri, le vicende artistiche e personali di Segantini-Timi producessero nello spettatore una forte risonanza emotiva oltre che una partecipazione a livello intellettuale.

A cura di Marianna Curia