C’è una scena, circa a metà di Miles Ahead, in cui Miles Davis a colloquio con il giornalista Dave Brill, che vorrebbe realizzare un articolo riguardante l’atteso ritorno sulle scene della star nera dopo un’assenza di cinque anni, pronuncia la battuta “la musica se non si evolve, muore”. È questa la chiave interpretativa dell’esordio registico di Don Cheadle, qui co-sceneggiatore e co-produttore, oltre che interprete.
La musica diventa allora più di un semplice commento alla vicenda del film, facendosi elemento fondamentale che caratterizza la narrazione e ne delinea ritmo e struttura. Costruito come un jazz standard ABAC, la pellicola ha un andamento circolare: il tema iniziale è infatti ripreso nel finale a cui è aggiunta una coda di chiusura che lascia quindi la conclusione aperta. L’impianto tipico delle composizioni del noto trombettista, a un primo ascolto semplici ma che in realtà celano un’impalcatura melodica ben più complessa, è ripreso cinematograficamente da Cheadle in un’opera prima di spessore che, sotto l’apparenza di film biografico, viene a riflettere sull’arte e sul processo creativo del suo soggetto.
Il silenzio artistico del jazzista a metà degli anni Settanta, di cui ben poco è riportato nelle biografie ufficiali, etichettata lapidariamente come un periodo di crisi dovuta a malattie, dipendenze e depressione, diventa per il regista terreno di elaborazione fantastica finalizzata non tanto a celebrare o condannare il vissuto dell’artista, bensì a farne trasposizione in immagini dell’atto compositivo. Per Davis, vita e professione sono andate sempre a pari passo, influenzandosi vicendevolmente in un processo di costante rinnovamento, vera cifra stilistica del jazzman. Considerandola nel suo complesso, si può leggere la produzione di Miles come una sorta di costante work in progress in cui a fasi di stabilità si alternavano rinnovamenti radicali, come il passaggio dal Bebop al Jazz modale, la Fusion e l’Acid Jazz; allo stesso modo è stato per la sua vita turbolenta e rocambolesca, segnata da donne, droghe e alcol che hanno lungamente minato un di per sé delicato equilibrio interiore.
Nella scelta di Cheadle di collocare temporalmente il suo racconto nel lustro di inattività del musicista non c’è dunque intento speculativo su eventi meno noti di un’esistenza già abbondantemente scandagliata, almeno a livello bibliografico: il gap artistico di Davis si fa invece preludio a qualcosa di nuovo, che scaturirà da quegli appunti sonori su nastro al centro della trama. Così è spiegata l’ultima scena, allegorica riflessione sul valore e la durevolezza dell’opera che vive ben oltre il suo autore.
Lapo Gresleri – Associazione Culturale Leitmovie