Ritorna al Biografilm, dopo la menzione speciale ottenuta nel 2013, Propaganda, opera prima del neozelandese Slavko Martinov. Nata da una gestazione di nove anni, la pellicola costituisce la prima parte di una trilogia incentrata sui metodi impiegati dalle autorità mondiali per manovrare il corso della storia, mantenendo i civili sotto il bombardamento delle armi di distrazione di massa. Il progetto è il primo passo del Sabineprogram, casa di produzione indipendente fondata dal regista in collaborazione con Mike Kelland, suo collaboratore, con l’obiettivo di finanziare opere caratterizzate dal subversive transmedia storytelling, di cui la pellicola sarebbe esempio.

Prelevando materiale video dai  prodotti più disparati della cultura occidentale, da videogiochi a filmati di guerra passando per spezzoni di talk show, Martinov costruisce un patchwork transmediale che chiama in causa la quasi totalità della nostra società, riletta alla luce delle strategie con cui le eminenze grigie dell’ 1% controllerebbero la popolazione, mantenendola sedata all’interno del circo mediale. Il collante di questo mare magnum è la voce di un sedicente psicologo coreano, tramite il quale Martinov innesta una serie di informazioni volte a dirottare la platea: il film è infatti presentato come frutto del lavoro di alcuni intellettuali della Corea del Nord, desiderosi di mostrare alla loro nazione la decadenza di un mondo modellato da mani americane.

E’ proprio questa strategia a permettere allo spettatore non informato di apprezzare il film, facendogli bollare i numerosi eccessi di naiveté che piagano l’opera come ingenuità figlie di uno sguardo straniero. Caduta la farsa dei coreani nazionalisti, l’opera di Martinov espone una contraddizione lancinante: Propaganda non è altro che un processo all’occidente perpetrato dal tribunale dell’occidente stesso, che si giudica utilizzando strumenti, concetti e parole forgiate dagli stessi stessi processi storici che ambisce a condannare. Lo stesso linguaggio impiegato per argomentare le  tesi gode di un taglio fortemente propagandistico, con immagini a forte impatto emotivo accostate a quelle dei malvagi di turno, in un saggio esemplare di montaggio connotativo.

Figlio bastardo dei documentari di Moore, il film cerca di dirottare la formula del mockumentary su binari più genuinamente sovversivi, creando però un prodotto dozzinale che si limita a sciorinare, per circa novanta minuti, tutti i possibili luoghi comuni sul complottismo. La grande maggioranza delle piste battute dal regista, dalla televisione come strumento di consenso e direzione dei consumi sino al j’accuse lanciato contro la chiesa cattolica, complice del potere,  appaiono come la riproposizione ormai stantia di argomenti attivi da tempo immemore nella mediasfera, riproposti per l’occasione con un linguaggio sgradevolmente fazioso. Quella che voleva essere una chiamata alle armi e al risveglio delle coscienze finisce così ad assomigliare, nell’incessante affastellamento di immagini, ad una qualunquista chiacchiera da bar.

Gregorio Zanacchi Nuti