La compresenza in sala di alcuni film dedicati al razzismo nella nazione statunitense, sia in termini storici sia considerando la società contemporanea, ci invita a proporre una riflessione di più ampio respiro sul cinema black.
Mai come oggi in America, l’attenzione verso le questioni razziali – e in particolare la realtà afroamericana – caratterizza la produzione cinematografica locale. Un fenomeno in rapida crescita, paragonabile all’interesse rivolto alle medesime tematiche durante le lotte per i diritti civili negli anni Sessanta e le cui radici sono da rintracciare nella logica dell’industria culturale statunitense, da sempre vincente connubio tra sapere “alto” e “basso”, educazione e intrattenimento, arte e mercato.
Attento ai cambiamenti politici e sociali interni, il cinema americano è stato regolarmente capace di leggere in profondità nel tessuto comunitario, attingendovi idee, tendenze e costumi da sfruttare di volta in volta in forme accattivanti, metafore di un’ideologia spiccatamente nazional-popolare espressione di una precisa quanto utopica visione del mondo.
Non c’è da stupirsi allora se la recente new black wave nasca sotto la prima presidenza nera degli Stati Uniti, evento di rilevanza storica, primo passo verso una reale democratizzazione del Paese. Ad un’America ancora tendenzialmente restia al cambiamento, scettica verso il nuovo e il diverso, chiusa nei confini del proprio “giardino” entro i quali difendersi dalla minacciosa wilderness esterna, Barack Obama – nonostante evidenti errori commessi nell’arco dei suoi due mandati – ha dimostrato come il sogno a stelle e strisce non sia un miraggio esclusivo di una sola comunità. Lo slogan “Yes we can” è andato così oltre la mera propaganda, facendosi promessa attesa e mantenuta verso la Nazione, desiderosa di liberarsi dei fantasmi dell’11 settembre e della disastrosa conseguente reazione bushiana, così come nei confronti della popolazione nera, da troppo tempo in attesa di un definitivo riscatto dal ruolo di eterna seconda.
I nuovi modelli di afroamericani incarnati dal Presidente e dalla moglie Michelle, sono andati di pari passo ma in direzione opposta all’incremento di violenza nei confronti della loro comunità, quasi il successo di alcuni scatenasse l’odio di molti. È questo cortocircuito mediatico che – come accaduto per i civili in Vietnam – ha portato l’attenzione non solo nazionale su una questione scottante, suscitando un interesse e un’opinione pubblica sempre più sensibile e attenta.
In questo clima, cavalcando la diffusa indignazione verso gli ingiustificabili atti perpetrati nei confronti dei neri, Hollywood fa il proprio gioco, mostrando il suo lato più convincente, politicamente corretto e schierato come mai prima in apparente opposizione all’establishment bianco. Difatti, a ben guardare l’edificante messaggio di emancipazione de Il diritto di contare di Theodore Melfi o Loving di Jeff Nichols, è palese come questi film non si allontanino dall’impianto tradizionale dei film razziali americani, che pongono il protagonista nero sempre in un ruolo di inferiorità o comunque di dipendenza dalla controparte di colore opposto.
Il modello del comprensivo “grande padre bianco” – rappresentato dal caporeparto Al Harrison nel primo caso e dall’avvocato Bernie Cohen nel secondo – che con lungimiranza tutela i suoi protetti aprendo loro la strada per raggiungere i propri obiettivi, ribadisce allora indirettamente un preciso ordine gerarchico, il cui schema è già stabilito e va mantenuto tale. In questa prospettiva, la scelta di portare sullo schermo vicende realmente accadute non è che un modo per giustificare fini e mezzi di un’operazione di consenso retorico da decenni applicata dall’industria cinematografica statunitense, atta a raccogliere un consenso più o meno condiviso da entrambe le parti in causa.
Diverso appare invece il discorso per Barriere di Denzel Washington e Moonlight di Berry Jenkins, film realizzati da autori afroamericani miranti a trattare in maniera più sincera – perché vissuta da dentro – l’irrisolta questione nera in territorio nazionale. Sia nello sguardo a ritroso di Washington che in quello rivolto all’attualità di Jenkins, è evidente l’obiettivo di porre lo spettatore davanti agli ostacoli culturali che ancora minano il progresso civile.
Se Moonlight smitizza l’immagine di black gangster macho e aggressivo attraverso la lenta scoperta dell’omosessualità del suo protagonista, delicato aspetto del proprio io celato dietro la possenza del fisico e la violenza del parlare, Barriere si fa invece metafora dell’oggi, riflessione amara e affatto elegiaca sull’essere afroamericani. In epoca trumpiana, i moniti di Troy Maxson ai figli paiono ben più che duri insegnamenti sullo stare al mondo: sono la disincantata riflessione su un Paese nel quale essere neri è ancora – come un tempo – un handicap, un difetto non correggibile con cui è necessario per molti convivere. La sofferenza di una vita diventa così quella di una comunità, i cui errori dei padri gravano sui figli, facendosi limiti sociali di un sistema perpetrato perché comodo vantaggio per alcuni a scapito degli altri. Certo, di progressi ce ne sono stati, ma la strada è ancora lunga. Il politicizzato Oscar 2017 a Jenkins per il Miglior Film va sicuramente in questa direzione, ma non è un film a fare la rivoluzione: esso può farsi solo sentore di una condizione diffusa, la cui soluzione dev’essere voluta prima che attuata.
Lapo Gresleri