Nella nostra passione per Peter Bogdanovich, e approfittando della lunga retrospettiva a lui dedicata dalla Cineteca di Bologna, abbiamo ripreso in mano e sfogliato ancora una volta uno dei più appassionanti volumi scritti dal regista/critico americano. Dedicato al maestro del classico hollywoodiano, Il cinema secondo John Ford è un libro-intervista, ma contiene anche spunti biografici e narrativi molto toccanti. E così, memori delle struggenti pagine dedicate agli ultimi giorni del vecchio Ford, ve le riproponiamo a seguire.

 

Tutti i grandi registi sono prima di tutto grandi attori. E nessuno lo fu più di Ford. Entrai nella stanza all’improvviso e lo colsi mentre, in fretta, si accendeva il sigaro, così da sembrare in una posizione di casuale riposo – come se niente al mondo andasse male e quella fosse solo una visita pomeridiana di un paio di amici. Ecco come si comportava tutte le volte che gli si chiedeva come stava, la risposta era sempre: “Abbastanza bene”, senza melodrammi né finto coraggio. Non si parlava mai di malattie mortali o di dolore – e sua figlia Barbara mi disse che non le chiese mai le pillole antidolorifiche, fino a meno di due settimane prima di morire. La chiacchierata fu breve e simile a molte altre che avevamo fatto – tranne che era tremendo vedere com’era ridotto, pur se cercava così coraggiosamente di farcelo notare. Mi prese in giro, come faceva sempre, perché ogni mia frase aveva l’intonazione di una domanda. Hawks, che è in genere piuttosto riservato e controllato, entrò come uno studente davanti al suo insegnante preferito – il suo garbo e la sua gentilezza erano commoventi. Ricordo che una volta gli chiesi se era stato influenzato da Ford quando aveva girato il suo primo western, Il fiume rosso, ed egli mi rispose che non poteva pensare che qualcuno potesse girare un western senza essere influenzato da John Ford. La cosa buffa è che a tutt’oggi molta gente pensa che sia stato John Ford a girare Il fiume rosso, perché è un western famoso e perché c’è John Wayne. E tutte le volte che qualcuno erroneamente si complimentava con Ford per Il fiume rosso, egli rispondeva, con molta naturalezza: “Grazie tante”. Hawks stesso si divertiva moltissimo a raccontare questa storia.

“I vostri cinque minuti sono scaduti”, disse Ford, e questo significava che era ora di andare. Così facemmo. Gli telefonai diverse volte, da Roma. Le nostre conversazioni erano brevi e cordiali, ma ogni volta sembrava sempre più debole. Morì di venerdì. Il lunedì di quella settimana fu l’ultima volta che parlai con lui, e quando udii la sua voce capii che non ne aveva per molto – sembrava così fragile. Sentirlo così, dopo averlo visto e ascoltato sul set, a capo di seicento tra attori e tecnici, spezzava il cuore. “Va abbastanza bene”, mi disse di nuovo, ma con uno sforzo notevole. Hawks lo andò a trovare il martedì. Mercoledì Ford disse che voleva vedere “Duke”, e giovedì Wayne arrivò là in aereo e passò un po’ di tempo con lui.

“Sei venuto per la veglia funebre, eh Duke?”, disse Ford.

“Accidenti, Jack, no”, rispose Wayne.  “Sei tu il pilastro – ci seppellirai tutti”.

“Ah beh” disse Ford “allora magari cercherò di resistere un po’ più a lungo”.

Come il vecchio in Un uomo tranquillo che era balzato su dal suo letto alla prospettiva di una bella zuffa, Ford sembrò rivitalizzato dalla presenza di Wayne. Bevvero qualcosa insieme e rievocarono qualche episodio del passato. Venerdì egli non proferì parola per molto tempo. Improvvisamente disse: “Vorrei per favore un sigaro”, e gli fu dato. Non disse più nient’altro. Sei ore più tardi morì.

Il necrologio del New York Times – come d’altronde la maggior parte dei necrologi – sottolineò tutte le cose sbagliate, e lo definì importante per le ragioni più errate. L’uomo che aveva narrato, nel modo più vivido e memorabile, la saga americana sullo schermo fu ricordato – e anche questo è molto tipico – in modo più appropriato in Europa. I maggiori quotidiani italiani dedicarono alla sua morte più spazio di quanto fecero sia il “Times” di Los Angeles che quello di New York. In un titolo venne definito “Il creatore del western”, il che fu più corretto e appropriato che scegliere Il traditore come suo capolavoro, come fece il giornale di New York. Le televisioni italiana e inglese presentarono numerosi spezzoni di suoi film. In Jugoslavia ci fu un omaggio televisivo di due ore. Al funerale, a Hollywood, parteciparono molte persone ma, fu detto, sarebbe stato meglio organizzarlo alla maniera di Ford. Lui sapeva come si seppelliscono i morti. Non c’era nemmeno una banda che suonasse Shall We Gather at The River.

Quando Hawks andò a trovarlo, quell’ultimo martedì, lui e Ford chiacchierarono assieme per un paio d’ore – principalmente su un film che Hawks stava preparando. Quando uscì dalla camera per parlare con Mary, la cinquantaduenne moglie di Ford, e con Barbara, disse loro: “Non trattate mai quell’uomo come un invalido mentale – mi ha appena dato delle grandi idee”. Prima di andarsene, Hawks tornò nella camera da letto.

“Sei tu Howard? Pensavo che te ne fossi andato”, disse Ford, tirando una boccata dal sigaro.

“Sono tornato solo per salutarti Jack”.

“Addio Howard”.

Hawks stava uscendo dalla stanza. “Howard”, Ford lo richiamò.

“Si, Jack?”

“Intendo davvero addio, Howard”, egli disse.

“Davvero addio, Jack?”

“Davvero addio”.

Si strinsero la mano e Hawks se ne andò. Finché ci saranno film, come è  possibile dire addio a John Ford? Riposi, e io prego che possa, in pace.

(Peter Bogdanovich)