Presente in sala in queste ore al cinema Lumière (anche in versione originale sottotitolata), Love and Mercy racconta la storia di Brian Wilson, geniale fondatore e mente dei Beach Boys, sempre sospeso tra leggerezza pop e reinvenzione colta. Per parlare del film, pubblichiamo la recensione di Marianna Curia, dell’associazione Leitmovie – collaboratori di Cinefilia Ritrovata – già comparsa sul sito dedicato al rapporto tra cinema e musica. 

Visto un biopic visti tutti e Love & Mercy non fa eccezione. Il film di Bill Pohlad che arriva in Italia solo quest’anno rispetto agli Stati Uniti (è stato presentato al Toronto International Film Festival nel 2014, ed è stato distribuito nelle sale cinematografiche statunitensi a partire dal 2015), racconta la vita di Brian Wilson, leader, autore e co-fondatore dei Beach Boys, gruppo contemporaneo dei Beatles negli anni Sessanta. Si tratta di un biopic musicale in cui non si sente musica, costruito come un film di finzione (al contrario di biopic come Amy o No Direction Home in cui sono inseriti, ad esempio, anche elementi documentaristici) in cui si tiene conto dell’aspetto privato e personale della vita del personaggio, piuttosto che di quello artistico del musicista. Lo spirito di innovazione di un genio della musica (nel film il riferimento è a Mozart) che cerca di percorrere i tempi, è chiuso narrativamente in una struttura formale tradizionale.

In una struttura a montaggio parallelo, Brian Wilson è contemporaneamente il giovane figlio psicologicamente fragile di un padre-padrone anche manager, e un adulto che prende psicofarmaci da un produttore-tutore senza scrupoli e che si innamora di una ex modella venditrice di Cadillac. Brian è sia vittima di una famiglia che non ha mai avuto (sua madre è morta e suo padre gli ha procurato una forte sordità ad un orecchio per le continue percosse che gli ha inflitto) e di un gruppo musicale (ritorna il tema della famiglia, i componenti dei Beach Boys sono fratelli e cugini tra loro) che osteggia la sua spinta innovativa nei confronti della sperimentazione musicale (in quegli stessi anni i Beatles realizzavano Strawberry Fields Forever e A Day in the Life).

Il rapporto di ostilità con il padre – il quale sovrappone questioni affettive di rapporti familiari con questioni lavorative di produzione discografica (arriverà a vendere i diritti dei Beach Boys senza coinvolgere il figlio) – insieme al conflitto di idee con i componenti del gruppo al limite tra tradizione e innovazione musicale, emergono in particolare durante le scene di registrazione in studio: quella dell’album Pet Sounds, in cui il giovane Brian vuole inserire versi di animali nelle tracce audio, e quella di Good Vibrations per la quale decide arditamente di assemblare le sezioni prodotte dalle versioni multiple della stessa traccia.

Insomma, il film è rivolto ad un pubblico di fan: solo lo spettatore modello che conosce bene la storia del gruppo prima ancora di andare al cinema è in grado di comprendere la carica innovativa di Brian Wilson, che vuole restare sulla cresta dell’onda (musicale) sì, ma non da surfista.

Marianna Curia