Durante la rassegna Assalto al cielo. Le immagini del ’77 è stato proiettato Bene! Quattro diversi modi di morire in versi, spettacolo-concerto televisivo in cui Carmelo Bene recita Blok, Majakovskij, Esenin e Pasternak. Sul palcoscenico di un teatro l’attore-regista è accerchiato da schermi neri sui quali ardono fiamme elettroniche che avvolgono le macerie, un incendio color rubino che, come in un’opera di Bill Viola, non da segno di placarsi. Un rogo dalle tonalità cangianti che arde e accompagna la voce di Bene, altrettanto calda e oscillante, il colore vibrante distoglie lo sguardo dalla macchina attoriale amplificandone la potenza.
L’uso dei colori è parte integrante dell’intera opera di Bene, volendo soffermarci più nel dettaglio su quello che è stato il suo rapporto con il cinema, ritroviamo nelle parole del regista una delle chiavi di lettura dei suoi film, pur tenendo presente che, come giustamente scriveva Goffredo Fofi: “Le chiavi le cerchi chi vuole, sembra dire Bene, che io me ne frego, e miro a me, comunicando al massimo un’impressione, un sentimento, un flusso d’angoscia”. (Quaderni Piacentini, n. 43, 1971).
Carmelo Bene predilige i colori primari, le mezze tinte, invece, smorzano le forme e sono prive della necessaria carica espressiva: “In Capricci il colore, i movimenti della cinepresa, non hanno nessuna importanza, visto che non c’è una conclusione. Il rosso del finale non è né pittorico né cromatico: è un discorso intraducibile in parole. In Nostra Signora dei Turchi il colore a volte è ironico (il primo incontro con la Vergine). Raggiunge allora un limite del barocco e un’ironia quasi amara. È diverso da Capricci. (…) Se a teatro io illumino di rosso un personaggio e questi tende il braccio, perché non posso illuminare il braccio di verde? La gente si stupirebbe, direbbe che non è plausibile, ma se un gesto comincia in rosso e finisce in verde, ecco, questo sarebbe un modo per troncare quel gesto, smontandolo. I colori non sono che contraddizioni, come la vita. Tutto può riassumersi in questo. Ciò che importa è prendere il words, words, words di Shakespeare e colorarlo. Lo facevo già recitando l’Amleto. Dicevo words e proiettavo luce rossa, poi words e proiettavo luce gialla, e ancora words e proiettavo luce azzurra. Il pubblico vedeva che c’era un cambiamento, che però non si verificava sul piano del significante acustico. Per il momento bisogna imparare a utilizzare i colori primari”. (Image et son, n. 235, 1970).
Sono numerosi i riferimenti alle opere pittoriche di artisti quali Velázquez, Ingres, Morandi, Dalì, De Chirico etc…, una successione continua di tableaux vivants, vorticismo voyeuristico in cui risalta la scelta cromatica. Dopo Salomè Bene si sente di poter dire, con una certa soddisfazione, di aver realizzato “il primo vero film a colori”, ovviamente di tutta la storia del cinema (!), un concerto di superfici rifrangenti, riflettenti e tinte acriliche vagamente pop. Le contraddizioni dei colori vengono meglio evidenziate attraverso il loro attento accostamento, come dicevo questo avviene in teatro, al cinema e in televisione; “per l’Amleto” (televisivo), spiega Bene, “mi serviva il bianco e nero in senso espressivo. Volevo sottolineare violentemente i contrasti e abolire il grigio. Tutte le sfumature di grigio che inquinano le immagini del bianco e nero quando è usato in maniera distratta o abitudinaria”. (Cineforum, n. 178, 1978).
Tornando al cinema di Bene, il suo continuo “citarsi addosso” è stato spesso male interpretato dai critici come nel caso dei rimandi a Godard in Capricci, “Dov’è Godard? La moglie?”, ribatteva Bene pensando ad Anne Wiazemsky; o nel caso di Nostra signora dei Turchi quando la musica del Terzo uomo accompagna il gesto dell’attore davanti allo specchio, scena in cui è stato visto un riferimento cinefilo, non voluto, a Orson Welles.
L’interesse del regista verso il cinema non sussiste, non frequenta le sale cinematografiche perché in esse vengono distribuiti dei “sottoprodotti”, nonostante questo si contraddice coscientemente ricordando di aver visto i film di Keaton, una stimata “scimmia alla macchina da presa”, di Ejzenštejn, di quel “coglione” di Buñuel, e del “guittetto” Chaplin. Anche Vertov, Tati e Bresson (in modo particolare il suo Lancelot du Lac) avevano attirato l’attenzione di Bene. Salva Freaks di Tod Browning “l’unico film che è un’opera d’arte” e Salò di Pasolini, “La commedia di Dio di Monteiro (ecco una cosa che apprezzo), che è una perversione pura, che non è un film, ma vita. Quando non sono film, allora va bene. Ma tutto il resto è cinematografia”. (Cahiers du cinéma, Cinéma 68, 1998).
Bene, negandosi come autore in quanto ripudia “tutto il cinema del secolo”, rinnega e abbandona presto il suo cinema, sostenendo di poter salvare solo alcuni film, che si riducono sostanzialmente a due scene: l’autocrocifissione mancata in Salomè e la pellicola maltrattata, tagliata e bruciata, in Nostra Signora dei Turchi, come “parodia del ricordo”.
Non una meteora, ma a distanza di anni, Bene continua a brillare (mi scuso per i paragoni cretini), questa breve parentesi cinematografica, come acutamente osserva Roberto Silvestri, mostra oggi i suo effetti che hanno evidentemente mutato il nostro modo di rapportarci, fruire e vivere il cinema: “senza lo shock scenico e oscenico (i grandangoli millimetrici dei suoi film sono telescopi puntati sul fuoricampo) di Bene, non sarebbero mai nate le facoltà di cinema, i DAMS, le riviste web, i festival di tendenza, le cineteche che restaurano e socializzano i film, le quasi 800 sale d’essai, i cofanetti Raro Video, etc…”. (Film Tv, n. 25, 2017).
Cecilia Cristiani