Vi piace più Charlie Chaplin o Buster Keaton? È questo l’eterno dilemma che tormenta i cinefili. Ora, una volta di più, potrete tentare l’impossibile risposta confrontando un classico tra i classici di Charlie Chaplin, Il monello, e una delle comiche più divertenti, sofisticate e surrealiste di Buster Keaton, Sherlock Jr..
L’occasione viene dalla Cineteca di Bologna che porta dal 9 gennaio nelle sale italiane i due film, distribuiti insieme in un unico programma, restaurati dal laboratorio L’Immagine Ritrovata.

E Cinefilia Ritrovata darà una copertura storico-critica molto intensa, sfruttando il lavoro sugli archivi da parte del progetto Il Cinema Ritrovato al cinema. Cominciamo da Buster: l’analisi di Kevin Brownlow e il testo della curatrice Cecilia Cenciarelli sul surrealismo keatoniano.

Sherlock Jr. era ben altro che un film comico pieno di numeri acrobatici. Molti lo considerano il capolavoro di Keaton. Intitolato originalmente The Misfit, il film era un esercizio di fantasia basato sul grande amore che Keaton provava per il cinema.
Ambientato parzialmente in una sala cinematografica, vede Keaton nel ruolo di un proiezionista che sogna di diventare un grande investigatore. Keaton è anche innamorato di una ragazza a cui regala fiori e cioccolatini, ma deve fare i conti con un rivale, l’affascinate Ward Crane, capace di regalare più fiori e più cioccolatini di lui. Ward Crane commette un furto di cui viene incolpato Buster. Cacciato via dalla casa della ragazza, si dirige verso il cinema in cui lavora. Dopo aver messo in moto il proiettore, si addormenta. A quel punto si sdoppia, il secondo Keaton scende in sala ed entra direttamente nello schermo. Un personaggio del film che è in proiezione, interpretato da Joe Keaton, lo caccia via a calci. Ma lui ritorna su ostinato e si trova in mezzo una serie stupefacente di scene sempre diverse.
“Quello è tutto il succo del film, il motivo per cui l’ho fatto” dichiarò Keaton. “Quella situazione e solo quella. Per il resto ho solo cercato di mettere in relazione i personaggi che si vedevano sullo schermo con quelli del mio film e attorno a questi ho costruito una trama. Fare in modo che tutto funzionasse, poi, è stato un altro problema. Quando il film uscì tutti i direttori della fotografia di Hollywood passarono notti insonni a riguardarlo per capire come avevamo realizzato certe scene”.
Per quanto breve, 1239 metri appena, il film è pieno zeppo di situazioni assolutamente bizzarre. La trama pose a Keaton un problema: c’erano tante “gag impossibili” e occorreva trovare un filo che le giustificasse.
“Presi due o tre trucchi, alcuni di questi risalivano ai tempi del vaudeville. Provai a metterli insieme, ma da soli non bastavano a reggere un’intera storia. Perché sono dei trucchi illusionistici, alcuni vengono dal circo, altri da Houdini o da Ching Ling Fu”.
Keaton avrebbe voluto girare Merton of the Movies, ma i diritti vennero acquistati dalla Famous Players che ne trasse un film lo stesso anno con Glenn Hunter e Viola Dana, amica di Keaton. Il primo abbozzo di Sherlock Jr., quando ancora si chiamava The Misfit, segue un po’ la stessa idea: un proiezionista di un paesino di provincia va a Hollywood e diventa un grande produttore. Ma era una storia che non gli permetteva di metter dentro tutte le gag che aveva in mente di girare.
I suoi sceneggiatori erano convinti che avrebbe dovuto essere un sogno. “Mi dissero: ‘Per riuscire a fare quel che vuoi fare, dev’essere un proiezionista di un cinema in un paesino di provincia che si addormenta dopo aver fatto partire il film. Una volta addormentato, sogna di essere uno dei personaggi del film che sta proiettando. Esce dalla cabina di proiezione, arriva sullo schermo e ci entra dentro. A quel punto può partire la storia che vuoi raccontare’. Credo che la ragione per cui alla fine ci siamo decisi per quel tipo di storia era che avevamo a disposizione il miglior direttore della fotografia del mondo, Elgin Lessley, uno che aveva lavorato anche con Sennett”.
Il problema di Lessley era quello di dare l’illusione che un film venisse proiettato sullo schermo e contemporaneamente dare la possibilità a Keaton di entrarci dentro. Lui e Gabourie avevano costruito sul set una sala cinematografica con un grande schermo. Dietro lo schermo, poi, c’era un altro set, lo stesso in cui erano ambientate le scene che si vedevano sullo schermo, illuminato con la tipica illuminazione cinematografica. I cambi di scena sullo schermo venivano realizzati chiedendo a tutti gli spettatori (ma anche a Keaton) di restare immobili mentre il set veniva cambiato. Naturalmente ci sono dei salti, la gente non sta mai esattamente ferma, ci sono anche dei cambi di luce, ma non si nota molto. Noi ci accorgiamo soltanto del fatto che la scena è cambiata mentre Keaton è rimasto fermo allo stesso posto.
Le cose si complicano quando si passa ad una scena presa per strada. Lessley doveva girare una prima volta l’immagine della sala cinematografica senza lo schermo. Non dovevano esserci errori perché tutto quel che sta attorno allo schermo deve comunque combaciare perfettamente con la scena precedente. Poi doveva riprendere la scena in strada, stando bene attento che la posizione di Keaton, all’inizio e alla fine, fosse esattamente identica a quella delle scene precedenti e successive. Per un direttore della fotografia era un vero e proprio incubo. “In quella sequenza ci aiutammo con diversi strumenti di misura. A un certo punto mi trovavo su uno scoglio, pronto a tuffarmi in mare, quando all’improvviso il mare si trasformava in qualcosa d’altro. Bloccammo la ripresa nel momento in cui guardavo in basso verso il mare, rimanendo fermo per un secondo. Quindi prendemmo le misure col metro, piazzammo un asse davanti alla camera come punto di riferimento e misurammo la mia posizione da due diversi angoli, così da essere sicuri che io fossi nella stessa posizione rispetto alla camera. Usammo anche strumenti topografici per determinare l’altezza a cui mi trovavo, così che nella ripresa successiva io mi venissi a trovare esattamente nella stessa posizione di quella precedente. Quindi riprendemmo a girare, io feci il salto e andai a sbattere con la testa sul terreno. Tutto questo lo realizzammo semplicemente cambiando il set. Io sullo schermo, invece, davo l’impressione di essere sempre lo stesso”.

Kevin Bronlow, Alla ricerca di Buster Keaton, Edizioni Cineteca di Bologna, 2009.

 

Sherlock Jr. segna l’inizio di un acceso dibattito, che continua ancora oggi, sul carattere surrealista dei film di Buster Keaton, al quale hanno preso parte registi, filosofi e drammaturghi.
Nel 1924, anno di uscita del film, René Clair scrisse che per il “pubblico surrealista” Sherlock Jr.rappresentava un modello paragonabile a ciò che per il teatro aveva rappresentato Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello.
L’uso che Keaton faceva del sogno e dei raccordi – di cui andò sempre molto fiero – fu definito rivoluzionario da Antonin Artaud e Robert Aron, che nel suo saggio del 1929 intitolato Films de révolte sottolineò come il surrealismo di Keaton fosse “superiore” a quello di Man Ray e di Luis Buñuel, poiché Keaton era riuscito a conquistare la libertà espressiva rispettando le regole del cinema narrativo. Lo stesso Buñuel, che dagli inizi del 1930 programmò i film di Keaton al Cineclub Español di Madrid, ne ammirava in particolare l’assenza di sentimentalismo, la capacità di trasformare gli oggetti e l’uso del sogno.
Negli anni Sessanta, quando i suoi film tornarono in sala, il surrealismo di Keaton fu nuovamente oggetto di considerazione critica: se il regista greco Ado Kyrou definì Sherlock Jr. “uno dei sogni più belli della storia del cinema”, il regista, critico e drammaturgo surrealista Robert Benayoun spinse ben oltre i parallelismi tra l’opera di Keaton e il surrealismo. In due articoli pubblicati nel 1966 su “Positif”, Benayoun indica alcune questioni estetiche che accomunano Keaton all’opera di René Magritte e Salvador Dalí, ai film di Luis Buñuel e ai quadri e alle sculture di Marcel Duchamp, Giorgio de Chirico e Francis Picabia. Secondo Benayoun, Keaton condivide inconsciamente con questi artisti l’interesse per il ‘meccanico’ e l’imperturbabile equilibrio tra “serietà e comicità”.
Ovviamente nelle interviste Keaton si diceva interessato “solo a far ridere”, ma – come osserva Walter Kerr – questo non lo rende un teorico del cinema meno brillante, soprattutto in Sherlock Jr.: “nel suo vertiginoso film-dentro-un-film illustra i principi della continuità e del montaggio in maniera più vivida e precisa di quanto siano mai riusciti a fare i teorici del cinema. Ma l’analisi non sta nella testa di Keaton. Sta nel film, è al film che lavorava, e la teoria prendeva forma dal corpo, dalla macchina da presa, dalle dita, da un paio di forbici”.

(Cecilia Cenciarelli)