Arrivati all’ultimo (ma solo per questa prima tranche) titolo distribuito per il progetto Cinema Ritrovato al Cinema, pubblichiamo – dalla solita, ottima antologia critica proposta dall’apposito minisito – la recensione che nel 1975 Claudio G. Fava dedicò a Chinatown, da oggi nelle sale di mezza Italia. In un colpo solo, omaggiamo così un grande critico appena scomparso e un grande autore, Roman Polanski, oggi come quarant’anni fa capace di straordinari capolavori. Segue.
Tutto trasparente, tutto chiaro. Un film ironicamente ma impeccabilmente d’atmosfera. Un film di splendidi luoghi comuni splendidamente ironizzati, recuperati e ribaltati ad ogni piè sospinto. Un’occasione per far soldi (soprattutto negli Stati Uniti) ma anche di dimostrare ancora una volta che un regista che sa girare, e ha gusto per far del cinema non riesce a rinnegarsi neppure se se lo impone. Personalmente, a dispetto dell’opinione della maggioranza, preferiamo il Polanski di Chinatown a quello di Che?, tipico film enigmatico per intellettuali, gradito anche dal pubblico perché Sydne Rome lo attraversa allegramente a più riprese, da una capo all’altro, senza vestiti; e, in fondo, alla maggior parte degli altri film di Polanski (Repulsion, così volutamente ‘anglico’ nella sua gelida compostezza allucinata, tipico film di virtuoso; Cul-de-sac provocatorio e sfrontato nelle sue evoluzioni snobistiche; lo stesso lavoratissimo Macbeth, a cui Polanski teneva tanto, persuaso come deve essere sempre quando lavora, di farne un capolavoro fuori dall’ordinario [in quei tempi egli diceva del Macbeth di Orson Welles: ‘È una tragedia di cattiva idraulica, una cloaca universale riempita di stregoni incestuosi’]). In realtà, forse solo il film d’esordio, il sottile e cattivo ed elzeviristico Coltello nell’acqua è così altrettanto disperatamente personale, felice, slegato e insieme coordinato. Il gusto di Polanski per la ferocia e per la crudeltà vi ritrova la stessa scioltezza ammiccante, senza il diavolismo ‘thriller’ di Rosemary’s Baby; là il divertimento di un irregolare quasi geniale, ancora esistente ma già aggressivo – cosmopolita per istinto, e per vocazione e per costrizione – che all’interno di una cinematografia tutta patetica e rammentante, tutta intesa a rilavorare all’infinito le nevrosi della ‘tragedia polacca’, si diverte a intessere un maligno triangolo, di gusto, si scrisse all’epoca, palesemente ‘occidentale’. Qui, dopo tanti anni di esperienze di cinema e di vita, intense e spesso tragiche, il piacere di far del cinema di memoria e al tempo stesso di smitizzarlo e di rovesciarne malignamente le proporzioni: il detective privato J. J. Gittes, non è soltanto sguinzagliato da una cliente misteriosa su una pista illusoria e pericolosa; non soltanto s’accorge di essere strumento d’una macchinazione che per troppo tempo gli sfugge e dietro la quale si nasconde la nera e ghignante volontà di potenza del terribile Noah Cross, uomo ricchissimo che vuol diventar ancor più ricco; non soltanto viene doverosamente picchiato, come accadeva appunto, di solito verso la metà del racconto, ai ‘private eyes’ del miglior cinema americano a cavallo tra anteguerra e dopoguerra, ma è costretto a portare a spasso un naso sconvolto e acciaccato. E vede puntualmente sfumare ogni sua speranza di giustizia: Cross, tiranno incestuoso, che ha voluto una figlia dalla figlia, e vuol assicurarsi anche la bambina, riesce a liberarsi del genero e della donna con una irridente facilità, in cui il critico di istinti più strettamente sociologici vedrà soprattutto la natura, come dire, para-politica e super-capitalistica. Ma che l’annotatore meno propenso a mitizzare gli intenti di Polanski riconoscerà prevalentemente dei suoi elementi di voluto ‘pastiche’, nei suoi gorghi di tortuosa ‘detection’ continuamente rovesciata e contraddetta, nella sintomatica apparizione di John Huston in un ruolo che Walter Huston avrebbe probabilmente rifiutato per eccesso di cattiveria ma non per eccesso di virtuosismo; un John Huston ghignante e laidamente patriarcale che sembra – proprio lui che esordì dirigendo Humphrey Bogart nelle vesti di Sam Spade ne Il mistero del falco – voler ricordare la fine di tutta un’epoca della sofisticazione ‘hard boiled’ da lui stesso inaugurata e rigenerata.
Claudio G. Fava, Chinatown, “Rivista del cinematografo”, n. 3, marzo 1975